Le stelle luccicano di una luce fredda e soffusa. Rivolgo lo sguardo verso l’alto, mi volto, giro su me stesso: il cielo è sopra, sotto e attorno a me, un cupo e vertiginoso nero mi avvolge.

Corro verso l’ignoto, leggero e privo di peso, i piedi sfiorano appena la terra perlacea lasciandovi impressa una debole impronta. 

Corro e gli astri scivolano dietro di me, veloci, come cuciti sul fondale di un teatro di periferia. 

Corro finché sotto le gambe il terreno non crolla all’improvviso, in una scarpata che si inabissa in un mare di foschia. 

Sprofondo verso il basso. Ora tutto il cielo è immobile attorno a me, perfino gli abiti che indosso sembrano sospesi nel vuoto circostante. 

L’aria non mi sferza i capelli, non mi graffia il viso e non mi taglia le mani ma la sensazione di eterea leggerezza è scemata: a ogni metro sento il corpo divenire più pesante, sempre di più, e mi trascina giù, sempre più giù. 

Mi lascio precipitare fino a quando una sporgenza di roccia si intromette tra me e l’abisso.

Aggrappato con tutte le mie forze mi mordo il labbro e corrugo la fronte. Provo a rimettere ordine nei pensieri: stavo correndo, sono caduto lungo una scarpata senza fine ma sono ancora vivo. 

Un peso mi opprime il petto, tento di inspirare con forza ma non c’è aria che possa riempirmi i polmoni. In alto un alone vitreo rischiara debolmente la cima della scarpata. Tra le lacrime che mi sgorgano dagli occhi arrossati, scorgo una figura dai margini sfocati, seduta sul bordo del pendio con le gambe penzoloni.

Le mie mani affondano in un terreno biancastro imprimendo morbide forme su una sabbia soffice ma compatta. L’aria, attorno, è immobile. Nessun rumore intimidisce il silenzio.

Osservo i piedi leggeri dondolare nel vuoto, un po’ di sabbia è rimasta attaccata alle scarpe. 

Poi lo sguardo mette a fuoco qualcosa più in basso: in mezzo alla foschia dell’abisso osservo una figura identica a me, aggrappata a uno spuntone di roccia con tutta la forza che ha. Incrociamo gli sguardi, riesco a scorgere le lacrime sul suo viso sporco e bagnato. Il corpo là in fondo solleva con fatica un braccio alla disperata ricerca di aiuto.

Esito, per un attimo. Poi mi alzo e mi allontano dal bordo del baratro maledetto, abbandonando quella massa di pesanti membra al loro mortale destino. 

Una fitta al petto mi sveglia. Spalanco gli occhi ma attorno a me ancora nero.

O è notte o sono diventato cieco. Ciò che più temevo è accaduto nel momento in cui ero più vulnerabile, nel sonno. 

Il panico mi assale. 

Quanto sarà grave il danno? Riuscirò a gestire la situazione? Potrò tornare indietro? Ho bisogno di vedere, di toccare con mano ciò che il gioco della vita è riuscito a fare. 

Scendo dal letto e vado allo specchio, accendo la luce del bagno.

Ciò che vedo è un puzzle mal completato, un insieme di incastri non più combacianti. 

Ciò che vedo è la sovversione delle logiche del mondo. Perché io, io in quanto commistione di corpo e mente, sono figlio di un ordine, di un raziocinio naturale che mi ha dotato di due braccia e due gambe per muovermi e di un cervello per ridere, piangere, sognare. 

Ma ora tutto è fuori posto. Con uno sforzo immane tento di ripristinare l’equilibrio che è stato rotto. Il corpo da una parte, la mente dall’altra. 

Braccia, gambe, piedi, fegato, polmoni: corpo. Felicità, rancore, speranza, autostima: mente. 

Ci provo e ci riprovo più volte ma poi, ogni volta che penso di esserci riuscito ecco che ogni pezzo collide con l’altro e tutto collassa nuovamente in quell’immagine demoniaca dello specchio. 

Tutto è inutile, non posso negare l’evidenza. Non sono più una persona ma un intrico di lacrime e sgomento, sono il campo dilaniato dal fuoco di una battaglia da poco conclusa. 

Il conflitto tra anima e corpo è una guerra eterna e assoluta: perdura nel tempo grazie all’interdipendenza tra le due parti in scontro e termina con la totale separazione della carne da quelle emozioni capaci di eccitarla o quietarla. 

La mia è stata una battaglia crudele, la mia è stata un’anima caleidoscopica dai tratti troppo eccentrici per evitare la ribellione al corpo fisico che la ingabbiava e la soffocava.

Solo ora mi rendo conto del conflitto tra titani che tiene in piedi un uomo ogni singolo istante, solo ora che le parti dentro di me sono irreversibilmente separate mi rendo conto che questa mia condizione è incompatibile con la vita stessa.

Il sangue irrora il mio corpo freddo, non scorre più tra le mie emozioni, zampilla a fiotti da profonde ferite dell’anima e mi abbandona, lasciandomi sul pavimento del bagno, spezzato.

Gaia Valesano
Dicono di me che sono introversa e di poche parole, la verità è che solo con carta e penna il mio groviglio di pensieri sembra districarsi. Ciò che leggerete qui saranno quindi gli schizzi di un disegno più ampio, un tentativo costante di scovare nei racconti che scrivo la mia stessa storia e di plasmare, al contempo, le storie degli altri.

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