Il peso del silenzio
Eravamo rimasti a parlare fino alle tre e mezza di notte.
Avevamo spettegolato su persone che entrambi conoscevamo: professori dell’università, ragazzi di Grindr, dove poche ore prima ci eravamo conosciuti, messi nel carrello e comprati a vicenda.
Lui non conosceva né Brunori né Craxi, non aveva mai visto Her, né letto un libro di McCarthy – in realtà, non sapeva nemmeno chi fosse – ma subiva la fascinazione politica di Calenda.
Aveva vent’anni. Io trenta.
Nel freddo di fine dicembre mi aveva chiesto se poteva fumare una sigaretta per strada, prima di salire. «Non so se ti dà fastidio il fumo». Gli avevo detto che sarei rimasto offeso se non se la fosse voluta fumare tranquillo, al caldo, in casa mia.
La volle fumare sul balcone.
Era delicato e riservato nei modi, di poche parole (tutt’altro che timido nell’approccio o nell’ottenere ciò che voleva). Aveva occhi nocciola, riccioli castani e un viso liscio; i suoi sentimenti erano lasciati filtrare da poche espressioni.
Era vestito in tenuta da studente di giurisprudenza quale era: camicia, maglioncino blu di Ralph Lauren e jeans di qualità, che continuava a toccarsi e grattarsi a causa di un prurito provocato – disse – da un bagnoschiuma aggressivo. Fu quella la causa che interruppe a metà il nostro rapporto sessuale, lasciandoci chiacchierare per ore.
Ci salutammo a notte inoltrata, scambiandoci i social.
Poi, appena mezz’ora dopo, ci scrivemmo su Instagram. Gli mandai una canzone.
Posso accettare che non si conosca Sigonella, ma che non si conosca La verità di Brunori Sas, no.
Nei giorni seguenti continuammo a sentirci. Facemmo sexting mentre lui era al mare. Ricevevo video espliciti, messaggi pieni di voglia, proprio come lo erano i miei.
Mentre preparava un esame, organizzavamo il giorno in cui sarebbe tornato. Il giorno in cui sarebbe dovuto venire da me per finire quello che avevamo iniziato – e che i messaggi non potevano certo soddisfare.
Scegliemmo il giorno: mercoledì.
Mercoledì arrivò. Gli scrissi. Gli riscrissi. Gli mandai un messaggio su Grindr, dove risultava online.
Niente.
Passò mercoledì, e con lui tutta la settimana. I messaggi senza risposta si alternavano ai “visto” su Instagram. Ma l’unico lato della chat con qualcosa scritto era il destro, il mio.
Una scogliera di parole sempre più alta, che a sinistra lasciava un abisso vuoto e silente.
Silente come il mare quando sei sotto il pelo dell’acqua, anche se la spiaggia brulica di gaia vita.
Da lui non ebbi mai più risposta.

Il ghosting, se praticato consapevolmente, è una forma di violenza, un abuso di potere; se invece avviene inconsciamente, rivela semplicemente un mancato sviluppo dell’intelligenza emotiva ed è preoccupante che avvenga spesso da parte di ragazzi sotto i trenta o ancora più spesso sotto i 25.
Mi perdonerà il lettore se questo editoriale parte da un esperimento personale: ho analizzato centinaia di profili su una delle app di incontri gay più diffuse, Grindr, per riflettere proprio su questo fenomeno. Il ghosting, per chi non ha familiarità con il termine – forse perché fortunatamente non l’ha mai subito, o perché non l’ha riconosciuto come tale – consiste nell’interrompere bruscamente e senza alcuna spiegazione una relazione, di qualunque tipo essa sia, rendendosi irreperibili e smettendo di rispondere a ogni tentativo di comunicazione. Si scompare nel nulla, come un fantasma (da ghost, appunto, in inglese), senza lasciare traccia, senza alcun saluto, senza una parola.
Non è certo un comportamento nato nell’era digitale. La letteratura ne offre esempi precoci: si pensi a Le notti bianche di Dostoevskij e alla coprotagonista – non poi così innocente – Nasten’ka, che rimane ad aspettare invano la risposta a una lettera dell’uomo di cui si è innamorata. Anche lei viene ghostata.
Ma oggi, il sistema relazionale contemporaneo ha radicalizzato e reso strutturale questa dinamica. Sulle app di incontri, in particolare, la mancanza di un galateo comportamentale, l’assenza di regole e la sovranità assoluta dell’interesse personale hanno trasformato l’interazione in un esercizio di individualismo estremo. Nessuno deve più nulla a nessuno: né per educazione, né per sentimento.
Non c’è razionalizzazione del sentire. Se oggi ho voglia di parlare, lo faccio. Magari mi eccito, mi masturbo. Il giorno dopo, se la stessa persona mi scrive, ignoro il messaggio. Perché io – ritorna l’“io” – non ho voglia di parlare. È il pensiero immaturo del bambino: “Se non mi interessa, non esisti.” È mancanza di intelligenza emotiva, è vigliaccheria, è incapacità di comunicare un’emozione negativa. Meglio sparire, meglio nascondersi: tanto chi c’è dall’altra parte non è una persona, ma una maschera, un bot, un’icona di profilo da cui attingere ciò che serve. L’altro viene ridotto a un video da guardare, una chat da consumare. È l’apoteosi dello sfruttamento e dell’individualismo solitario: l’altro come oggetto d’uso.
Un tempo si considerava vigliacco chi lasciava con un messaggio. Oggi neppure quello: nessun saluto, nessuna spiegazione, solo il vuoto.
Qualcuno addirittura lo dichiara in anticipo: “Se non sono interessato, non rispondo.” Come se dire “no grazie” fosse un onere insostenibile. Ma in un incontro reale, questo sarebbe normale: ringraziare, declinare con cortesia. Chi scrive un messaggio, lo fa mostrando un interesse, sta dicendo: “Qualcosa di te mi ha colpito.” Eppure la risposta non arriva. Alcuni si giustificano dicendo di ricevere troppi messaggi: ma davvero non si trova il tempo per sei parole – “Scusa, non sei il mio tipo”? Con il completamento automatico della tastiera o i messaggi predefiniti offerti dall’app stessa, non servirebbe neppure scriverle.
E allora viene da chiedersi: perché il ghosting esiste? Perché Grindr – e molte altre app simili – funziona come un e-commerce: le persone vengono spogliate della loro umanità e trattate come prodotti. Se la conversazione non è più stimolante, basta chiudere la finestra. Si può parlare per un’ora con una persona e poi vederla svanire, sostituiti da qualcun altro più vicino, più interessante. Si rimane col cerino in mano, con l’illusione ancora accesa. I messaggi di sollecito – “Hey”, “Ci sei ancora?”, “Sei vivo?” – si moltiplicano. Il giorno dopo, o la settimana successiva, il ghostato manda ancor un “Ciao”, ci prova a capire. Perché è difficile accettare il silenzio, difficile arrendersi al nulla. E allora ci si aggrappa a qualsiasi scusa: “Avrà il telefono scarico.”, “Starà guidando.”, “Si sarà dimenticato di rispondermi.”
Nel frattempo, l’altro continua ad accedere all’app, visualizza tutto, ma non risponde. Il ghostatore vive un crescendo di incapacità comunicativa, colpendo chi gli sta intorno. Il ghostato, nel frattempo, diventa un oggetto dimenticato nel carrello dell’ e-commerce: i suoi messaggi sono come le notifiche che ci ricordano un acquisto mai concluso, di cui però non ci importa più. Ma che ci dà fastidio anche solo cancellare dal carrello di Amazon; perché probabilmente il prodotto più interessante già lo abbiamo trovato su un altro store. E in questa apoteosi individualista, non ci importa più di nessuno, non dobbiamo niente a nessuno perché in realtà, oltre la chat dai messaggi gialli e blu, non esiste nessuno.
Per smascherare certi comportamenti, basta fare un piccolo esperimento: chiedete a un amico, magari particolarmente attraente secondo i canoni dell’app – addominali in vista, foto al mare o in palestra – di scrivere al vostro ghostatore. Ed eccolo lì, pronto a rispondere, reattivo, coinvolto. Il silenzio, allora, diventa una scelta deliberata.
All’inizio ho parlato di mancanza di intelligenza emotiva, ma bisogna aggiungere che questo vuoto nasce da una forma di soggettivismo esasperato. Troppo concentrati sul “cosa voglio io”, troppo poco attenti a “cosa può sentire l’altro”. Non si comprende che il silenzio ha un peso. Il ghosting genera in chi lo subisce confusione, ansia, disorientamento, dubbi su sé stessi: “Ho detto qualcosa di sbagliato?”, “Non gli piace qualcosa di me?” Anche le persone più sicure possono diventare fragili, insicure, scosse nel profondo.
Secondo alcuni studi, il 41% delle persone ha subito ghosting, senza distinzioni di genere. Altri studi parlano di percentuali che raggiungono l’80% tra i 18 e i 30 anni. Il mio piccolo esperimento, per quanto limitato a un’app specifica e a una comunità minoritaria di cui come bisessuale faccio parte – quella omosessuale maschile – restituisce l’immagine di una comunità sempre più elitaria, narcisista, insensibile, soprattutto nella fascia tra i 20 e i 25 anni. Sempre più devota a una religione estetica del sé e dell’altro: il riconoscimento passa per l’aderenza a canoni di bellezza. Il rispetto, per l’attrattività. Sei degno di risposta se sei attraente, se no non ti riconosco, non ti degno del mio tempo.
È una constatazione amara. Soprattutto se si pensa che la comunità gay è una minoranza che lotta ancora oggi per il riconoscimento dei propri diritti, spesso ostacolata da leggi, pregiudizi e violenze fisiche. Eppure, all’interno, cresce la mancanza di solidarietà, di empatia, di rispetto reciproco. Una comunità efficiente nell’organizzare i Pride, ma molto meno nell’organizzare la propria umanità.
Ecco il mio Peso del silenzio: un’esperienza personale che spero possa stimolare un’autocritica in chiunque si sia riconosciuto, anche solo una volta, nel ruolo del ghostatore. Perché dietro quello schermo, dietro le nuvolette blu e gialle, esistono persone. E la gentilezza, in questi casi come in tanti altri, è un atto di rispetto. Manifestarla – con gesti semplici, parole chiare, attenzioni minime – non costa molto, ma può diventare una virtù preziosa.
In conclusione, più pragmaticamente vorrei concludere (proprio perché ho predicato l’empatia,) con lo slancio più onesto che mi sento di offrire a chiunque è stato ghostato: accettate il ghosting ai primi messaggi inevasi. Lo so che non avere risposte magari dalla persona con cui abbiamo passato una notte, una scappatella o anche solo un’ora di sexting può far sentire inadeguati.
Ma va accettato, non perché sia giusto, né maturo, né educato. Ma perché esiste. Perché, sbagliando nel metodo nel suo silenzio, dice comunque qualcosa. Ma chi rimane in questo silenzio non insista, non supplichi, non infesti la vita di chi non ha saputo gestire la relazione. Perché si può dare rispetto anche a chi non lo ha avuto.
Legga tra le righe, tiri un sospiro, e vada oltre. Perché alla fine la gentilezza più grande che possiamo fare a noi stessi e all’altro è smettere di bussare a una porta che è stata chiusa da dentro. ♦︎
Illustrazione è di Susanna Galfrè