Provate a immaginare una vita tremendamente monotona, una sequenza di azioni ripetitive che occupano le vostre giornate senza riempirne lo spazio con un ritmo lento e ripetitivo.

Ecco, questa è la mia vita.

Sconcertante, vero? per un ragazzo di trentatré anni.

Sono convinto che da qualche parte nell’universo c’è un tizio che trascorre il tempo rovistando in un’enorme scatola alla ricerca delle bobine con il cortometraggio della giornata – tipo di ognuno di noi. Una volta trovata quella giusta la monta, silenzio in sala, e via!

Il mio film inizia così: da due anni mi alzo, scendo dal letto imprecando perché Galileo ogni volta mi ruba le ciabatte, mi infilo una camicia sopra ai pantaloni del pigiama e mi collego al PC per lavorare. Sei ore di stretto ed emozionante contatto fisico con il mio fidato computer. Dopo il tempo è occupato da commissioni, opzionali pulizie domestiche ed eventualmente un po’ di attività fisica, ancora più opzionale delle pulizie.

La mia vita, in fondo, non è poi così male, dopotutto sono un manager dalla carriera emergente e con un curriculum degno di nota, ho un lavoro stabile e una indipendenza economica non comune a tutti i miei coetanei. Insomma, il mio è un film ambientato nei “quartieri bene” di Milano.

Eppure se al liceo avessi saputo che il mio sogno di “distinguermi tra la folla” come dicevo allora e il mio proposito di “smuovere il terreno sociale” si sarebbe tradotto in tutto questo, sono certo che avrei trovato il modo di cambiare obiettivo.

Perché oggi so che inseguendo lo stereotipo dell’uomo di successo mi sono costruito attorno una vita fatta di scrivanie e tastiere in un’azienda nella quale ha ragione chi ha la camicia meglio stirata.

Ma questa mattina il tizio laggiù, quello delle bobine, deve essere particolarmente ispirato perché oggi programmi diversi.

Finito il lavoro giornaliero corro in camera, spalanco l’armadio e scorro rapidamente i vestiti all’interno: una linea netta divide le camicie bianche, azzurre, rosa pallido meticolosamente stirate e ripiegate a destra, e un ammasso più o meno informe di felpe e magliette sulla sinistra. Afferro a caso un paio di jeans e una t-shirt, e con lo zaino in spalla e il cartellone che mi occorre in mano mi chiudo alle spalle la porta di casa.

Salto sulla metro e in poco tempo sono in piazza del Duomo. Uno sguardo veloce e scelgo di fermarmi poco lontano dall’entrata della Galleria Vittorio Emanuele II, in posizione leggermente decentrata. Poso lo zaino, apro il cartellone e aspetto.

La piazza oggi è gremita di persone, e dopo tanto tempo posso di nuovo giocare a indovinare i loro pensieri guardandole in viso, osservando gli occhi, i sorrisi e le espressioni. È una sensazione strana: oggi mi pare impossibile che così tante persone possano coesistere in uno stesso spazio, la loro vicinanza quasi mi disturba. Percepisco con disagio l’energia di ognuno di quei corpi come se avessi davanti un ammasso di soli elettroni che per intrinseca natura devono respingersi e allontanarsi. Si, troppe cariche tutte insieme.

A distogliermi da queste mie elucubrazioni fisico – filosofiche è un ragazzo con uno zaino a quadri rossi e blu. Fissa prima me e poi il cartellone.

“Posso scrivere qui?” mi chiede.

“Certo” e gli porgo un pennarello. Scarabocchia qualcosa e scompare tra la folla.

Il sole nel cielo appare e scompare dietro a gruppetti di leggere nuvole primaverili creando ombre in movimento sul lastricato della piazza.

Si avvicina una donna con il cappotto rosso. Scrive e poi mi ringrazia, augurandomi una buona giornata. Dopo di lei, un uomo stempiato con un bastone e il passo incerto, una ragazza dai capelli rosa e blu, due gemelli, un ragazzino con la fidanzatina per mano e molti altri. Arriva anche un bambinetto con un braccio ingessato pieno di scritte colorate che si avvicina e questa volta mi chiede di scrivere per lui.

“Certo”, gli rispondo,” qui cosa vuoi scrivere?”

“Qui scrivi “amici””, mi dice, “e qui metti “calcio””. Fatto.

Il pomeriggio procede così, a tratti lento e a tratti rapido con il tempo scandito dal numero di persone che mi si affollano intorno.

Quando il sole inizia a scivolare sempre più vicino ai tetti dei palazzi e il mio stomaco comincia a protestare decido che è ora rientrare. Intorno a me la gente si è diradata un poco e tutti sono tornati nelle loro case per una rapida doccia e un cambio di outfit, pronti ad invadere di nuovo le strade con abiti da sera e tacchi a spillo.

Mi stiracchio un po’, piego il cartellone e scendo nella metro. Quattro fermate, sei rampe di scale, due giri di chiave nella toppa ed eccomi in casa, con Galileo che mi salta addosso scodinzolando.

Mentre i miei stessi fornelli sembrano fissarmi con occhio di rimprovero faccio una rapida chiamata e ordino un sushi per cena. Nulla di diverso dall’ordinario. Butto un po’ di mangime al mio pesciolino Planck, riempio la ciotola a Galileo e adesso posso sedermi e finalmente guardare il cartellone.

In cima si legge: “oggi, 31 marzo: fine dello stato di emergenza per covid-19”. Poi una riga verticale che divide in due lo spazio. A sinistra c’è scritto: “Cosa ti ha portato via la pandemia?”.

Sotto, mille calligrafie diverse. La prima parola, scritta in stampatello un po’ sbilenco, è “normalità”. È il ragazzo con lo zaino a quadri. Curioso, penso. Quel giovane avrà avuto diciotto o diciannove anni e io alla sua età odiavo la normalità. In quarta e in quinta liceo tutti vogliono essere eccezionali, chiunque vuole avere un talento infallibile perché ci si sente forti di quella solo presunta maturità personale che invece è ancora un guizzo ingenuo dell’infanzia. Io stesso volevo essere quello diverso e come me mille altri. Eppure lui ha scritto che la pandemia gli ha portato via la normalità. La quotidianità di prima è divenuta un sogno irraggiungibile e la precaria condizione di emergenza ha preso il posto della normalità di oggi.

Sotto a quella leggo poi altre parole come “sport”, “motivazione”, “scuola”, “amici” scritto con la mia calligrafia, “lavoro”, “comunicazione”. E poi leggo anche dei nomi: “Mario”, “Luisa”, “Luca”, “Mariangela”. Mi soffermo un attimo su quei quattro nomi e penso a quanto dovrebbe essere grande il mio cartellone per scrivere quello di tutti coloro che come “Mario”, “Luisa”, “Luca” e “Mariangela” sono diventati la perdita di qualcuno.

Infine, mi sposto alla colonna di destra. Li c’è scritto: “Che cosa vuoi ritrovare/costruire da oggi in poi?”

Qui leggo “amicizia”, “amore”, di nuovo “lavoro”, “indipendenza”, “benessere”, e sopra di tutti il ragazzo con lo zaino a quadri che scrive “tempo”. Lui vuole ritrovare il tempo. E mi colpisce di nuovo, perché una persona così giovane ha così tanto tempo davanti a sé che neppure può immaginare eppure, evidentemente, lui ha sentito di averne perso troppo, di averlo sprecato, o magari se ne è sentito privato.

Poi penso a me e al mio film, penso alla carriera e al mio brillante curriculum. Penso al mio tempo e improvvisamente mi sento un pazzo e uno scellerato: io cosa ne faccio del mio tempo? Pigio tasti di un computer. Per cosa investo il mio tempo?  Per un futuro contrassegnato da prefissi come “iper”, “super”, “ultra”. E cosa ne faccio del mio presente? Ah, si, una commediola da cinema di periferia. Ma no, non era questo il mio sogno al liceo e quel dannato ragazzo con lo zaino a quadri ha tremendamente ragione.

Allora prendo il pennarello: cosa ho perso? Il respiro. Cosa voglio ritrovare? Me stesso.

Mi alzo e vado sul balcone, mi appoggio alla ringhiera e guardo la città che comincia a illuminarsi di mille fari e mille lampioni. Vedo le macchine in coda ai semafori, le persone che si accalcano all’entrata dei ristoranti e mi affiorano alla mente immagini di un passato non così lontano ma dal quale mi sento ormai così distante.

Il mio lavoro mi insegna che il futuro non può esistere in funzione del ritorno al passato. Quindi domani sarà diverso. Sarà meglio? Sarà peggio? Non lo so.

Oggi per le strade si vive la fine della pandemia, della malattia e di un po’ di quel grigio che c’è in ognuno di noi. Che sia veramente la fine di tutto ciò? Non credo. Una data sul calendario non è in grado di mettere un punto a tutto, ancora oggi le persone si ammalano e lottano in un ospedale, ancora oggi i medici fanno gli eroi in corsia perché ancora oggi il covid-19 fa parte delle nostre vite. Ma oggi è un simbolo, una svolta sociale che può scuotere qualcosa dentro ad ognuno di noi, restituire un po’ di quella motivazione che molti hanno perso.

Penso a tutto questo e me la strappo dal viso, la appallottolo e la stropiccio serrandola nel pugno. Un sorriso mi si apre sul volto, riempio i polmoni fino a farmi male e poi butto fuori l’aria. Finalmente, sento di nuovo qualcosa dentro. Finalmente, dopo due anni, torno a respirare.

Gaia Valesano
Dicono di me che sono introversa e di poche parole, la verità è che solo con carta e penna il mio groviglio di pensieri sembra districarsi. Ciò che leggerete qui saranno quindi gli schizzi di un disegno più ampio, un tentativo costante di scovare nei racconti che scrivo la mia stessa storia e di plasmare, al contempo, le storie degli altri.

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