Per la quarta volta negli ultimi otto anni il titolo di campioni NBA e il tanto bramato anello viene conquistato dai Golden State Warriors.

Chi sono i Golden State Warriors?

La parabola effettuata dagli Warriors è sempre sembrata impronosticabile nel corso degli anni e difficilimente ad inizio anno si sarebbe potuto immaginare questo epilogo.

2014-2015

Nella stagione 2014-2015 Steve Kerr diventa Head Coach dei gialloblu, lui che, da giocatore, di titoli ne aveva vinto qualcuno (5 per l’esattezza, tre di cui arrivati nel secondo storico three-peat dei Bulls di sua maestà MJ e due con i San Antonio Spurs) ed è sotto la sua illuminata guida sia tecnica che spirituale che questa squadra inizia il processo che la porterà ad essere una delle più imponenti dinastie cestistiche dai tempi, guarda a caso, proprio di Michael Jordan e dei suoi Bulls. I titoli non tardano ad arrivare. Infatti già alla prima stagione gli Warriors, nonostante l’ostacolo Lebron James nelle finals, mettono in bacheca il Larry O’Brien Trophy, guidati dalle mirabili gesta offensive di Curry e Thompson, i quali guadagnano subito un nickname di coppia “Splash Brothers” dovuto soprattuto alla grande abilità nei due sui tiri da tre punti,

2015-2016

L’anno successivo San Francisco è semplicemente “unstoppable”. Viene registrato il miglior record in regular season della storia NBA (73 vittorie e solo 9 sconfitte) e nei playoffs non sembra esserci nessuno che possa opporsi. Sembra, appunto. A Cleveland c’è un uomo che ha sulla schiena un tatuaggio piuttosto esplicativo sulla sua persona: “The Chosen 1” (il prescelto). Golden State conduce le finals per 3-1, nessuno nella storia dell’NBA aveva mai saputo ribaltare una situazione così compromessa, ma Lebron ha un conto aperto soprattuto con gli Warriors e soprattuto nei confronti della gente di Cleveland: tre vittorie consecutive e primo storico titolo per i Cavaliers con l’urlo ormai passato alla storia del numero 23: “Cleveland, this is for you!”

Un commosso LeBron dedica il titolo ai suoi tifosi e alla sua città.

2017-2019

Dopo la clamorosa debacle, però, gli Warriors sono tutt’altro che finiti, in estate firmano l’uomo del momento: l’ala piccola Kevin Durant. L’ex giocatore di Oklahoma formerà con Curry e Thompson un pirotecnico trio offensivo che porterà nei due anni successivi il conto dei titoli nella Baia di San Francisco a 3 nella sola “era” Steve Kerr.

Arrivati dunque alla stagione 2018-2019 gli Warriors sono di nuovo in finale Nba per la quinta volta consecutiva, nonostante l’infortunio al crociato della stella Klay Thompson che inizierà un vero e proprio calvario. In finale di conference, durante gara 5 anche Durant è obbligato a lasciare il campo per stiramento al polpaccio, infrotunio che lo obbligherà a dare forfait anche alle prime quattro partite della finale. Una volta tornato Durant la sfortuna non smette di perseguitare Kerr e squadra: rottura del tendine d’achille e stagione finita. Gli Warriors orfani di due grandi trascinatori sono obbligati ad arrendersi ai canadesi dei Toronto Raptors (primo titolo NBA per una squadra extra USA).

L’inizio della fine?

Dopo la sconfitta sembra arrivare definitivamente il tramonto sui successi nella Baia. Durant sceglie di firmare per Brooklyn,Thompson è ancora alle prese con l’infortunio al crociato e Curry dopo una manciata di partite subisce un brutto infortunio ad una mano. Dopo i tanti titoli e successi il record stagionale è un misero 15-50 che, naturalmente non garantisce l’accesso ai playoff nella “bolla” di Orlando giocati in piena pandemia.

L’anno successivo dopo l’acquisizione di James Wiseman, giovane di notevole potenziale, con la seconda chiamata assoluta al Draft, le noie fisiche non smettono di interessare Thompson che dopo il crociato subisce un altro infortunio anche lui al tendine d’Achille e sarà obbligato a saltare in toto la stagione. Senza il tanto atteso ritorno degli Splash Brothers, Golden State fa fatica a competere ad alti livelli. Con un record di 39-33 raggiunge i play-in, ma manca l’accesso ai playoff.

Strenght in Numbers

Quest’anno dopo tre lunghi anni da incubo gli Warriors sono riusciti a tornare a competere ai massimi livelli NBA e a diventare nuovamente campioni di una lega in cui hanno certamente lasciato un marchio indelebile, destinato a rimanere negli annali. Si tratta di una stagione che sarebbe comunque stata da ricordare vuoi per il ritorno in campo dopo un calvario di 941 giorni di Thompson, vuoi per uno Stephen Curry capace di esprimersi ai suoi livelli più alti, ma l’anello diventa simbolo di una vera e propria consacrazione di una squadra capace di ricevere colpi a destra e a manca, ma incapace di darsi per vinta. Il motto che ha sempre accompagnato i successi a San Francisco è, non a caso, “Strenght in Numbers”, ovvero che la forza sta nel gruppo, non nel singolo.

MVP, sinonimo? Steph Curry

È indubbio che su questo successo in particolare ci sia una firma molto netta, la firma di un uomo senza il quale ora non avrei avuto modo di parlarvi di nessuno di questi eventi: Wardell Stephen Curry. Incredibilmente questo è stato il suo primo premio di MVP delle finals, ma che come ha esplicitamente fatto intendere in conferenza stampa, non ha nessun valore se comparato al valore del titolo per l’intera franchigia.

Curry non è stato quel bambino considerato all’unanimità un predestinato a lasciare il segno in NBA ed è forse ancora più motivo di stupore vederlo giocare. La meccanica di tiro sembra essere il risultato di un perfetto calcolo matematico, ma anche un’opera d’arte unica ed inimitabile.

Potrei ora lasciarvi una sfilza infinita di numeri e record, ma alla fine dei conti rappresentano solo la parte “umana” di Curry, cioè quello che noi uomini comuni cerchiamo di racchiudere con paragoni o in nostre personali classifiche. Steph, però, sul parquet si allontana molto dagli esseri umani e raggiunge una sfera superiore e quindi i record non importano, così come non importano le sterili discussioni riguardo chi sia il vero G.O.A.T. Su una cosa, penso però si possa essere tutti d’accordo: fino a prima di Stephen Curry una tiro rilasciato a una distanza di 10 metri dal canestro era considerata una follia, ora è una poesia.

Indescrivibile
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