Mentre oggi, 8 Marzo, tutto il mondo si schiera in prima linea per esaltare e difendere ‘la donna’, io qualche giorno fa sono stata molestata in stazione. 

Illustrazione di Lara Milani

L’episodio è avvenuto a Mondovì, piccola cittadina di 22.000 abitanti in provincia di Cuneo. Mi reco in stazione verso le 7.30, parcheggio la macchina e corro ad acquistare i biglietti. Camminare per il viale a quell’ora non è piacevole né rassicurante. Certo, c’è chi passeggia con il cane ma anche chi ti osserva più del dovuto, ti fissa e poi decide anche di seguirti per un tratto di strada. 

Insomma, non è il luogo ideale dove sgranchirsi le gambe nelle prime ore del mattino. Arrivo finalmente a Torino con la mia amica e compagna di corso. Passiamo la mattinata serenamente, seguiamo le nostre lezioni, ridiamo, spariamo cazzate, pensiamo al weekend. Alle 16, terminate le lezioni, ci incamminiamo verso la stazione di Torino Porta Nuova.

Mi ricordo che quel giorno, scherzando le ho detto: «Ho sempre l’ansia di schiacciare lo spray al peperoncino». È da un po’ di mesi che me lo porto dietro, nello zaino. Me lo ha comprato mia mamma per sapermi più serena in giro, specie quando sono da sola. Mi aveva detto: «spero che tu non lo debba mai usare ma comunque ce l’hai». È una frase che in quel momento non mi aveva, forse, nemmeno sfiorata. Ora invece, è come uno schiaffo in faccia. 

Torniamo in stazione e alle 16:25 prendiamo il treno per tornare a casa. Il viaggio di ritorno è sempre uno di quei momenti, per così dire, di ‘decompressione’. Ti rilassi, tiri le somme della giornata. Tutto ciò in compagnia della musica. Mara Sattei con la sua DuemilaMinuti’, carezzava con estrema gentilezza tutte le ore vissute tra caffè, laboratori e appunti disordinati.

Arriviamo finalmente a destinazione. Sono poco passate le cinque, Mondovì è ancora illuminata dalla luce del sole. Tengo compagnia alla mia amica, deve aspettare che il fratello arrivi a prenderla. Ci mettiamo sotto la pensilina del bus e chiacchieriamo del più e del meno. Poco distante, c’è una signora che, come noi, aspetta. Passano circa dieci minuti e un uomo esce dalla stazione.

È vestito in modo trasandato, con un sacco blu che fa strisciare per terra. Non riesce a camminare dritto, barcolla, sputa due volte per terra. Si avvicina alla signora poco distante da noi. Accorcia le distanze. Poi esclama: «dov’è la fermata della tua figa?». Lei fa finta di non sentire. Sposta lo sguardo da un’altra parte. Lui continua a ripetere quella frase. Lei prova a spostarsi. Lui nel frattempo le tocca il sedere. La signora viene da noi. Aveva una faccia pallida. La paura l’aveva bloccata. La bocca era paralizzata. Gli occhi invece erano vivi. Le sue palpebre sembravano urlare disperatamente. Viene verso di noi per cercare protezione.

L’uomo si avvicina a me. Continua a ripetere la sua frase come una mantra. Ride. Allunga le mani. Vuole toccarmi. Le sue mani non arrivano a destinazione. Il mio calcio è arrivato prima. Diretto. In pancia. Prova a contrattaccare con uno schiaffo. La poca sobrietà non glielo permette. Dice qualche frase indecifrabile. Mi guarda con fare minaccioso. Gli occhi volevano farmi la guerra. Volevano combattere. Ma il corpo (e il cervello) avevano già gettato le armi. Interviene un ragazzo che gli urla contro. Si allontana guardandoci. Mi dice ancora qualche parola sbraitando. Scompare nel viale. Nel frattempo si tocca i testicoli Il Bon ton non è per tutti. 

Quella che segue dopo è una parentesi che non ho ancora avuto il coraggio di chiudere. A volte credo sia necessario farlo solo per dare un nuovo colore alla nostra vita o per sfumare poco alla volta, il dolore che rimane.

Sono tornata a casa con le gambe che tremavano. Sono esplosa in un pianto di disperazione. Mia mamma mi ha fatto sedere. Ho bevuto un caffè. Mi ha ascoltata con quegli occhi impotenti ma carichi di empatia. È proprio quell’empatia che mi ha fatto sentire meno sola. Mio papà, invece, mi ha accompagnato dai carabinieri per segnalare il fatto. Dopo aver parlato un’ora con una marescialla, ritorno a casa. Le due domande che mi ripeto da giorni sono: «avrò fatto la cosa giusta? Sarà servito a qualcosa la mia testimonianza?» 

Potevo chiamare i carabinieri in quell’istante. È vero. Potevo usare quel benedetto spray al peperoncino. Certo. C’erano un’infinità di cose che si potevano fare. 

Ma la paura? Quella come si può gestire? Come si può sapere, in momenti di pericolo, qual è l’ancora più sicura a cui aggrapparsi? Dove si trova quel famoso porto sicuro che tanto si cita? Esisterà veramente? 

Il mio porto sicuro è stato il mio istinto. Quello che a volte mi fa dire cose forti, senza pensarci. In quei casi lo odio. Mi fa arrossire. Mette in imbarazzo. Mi fa venire male allo stomaco. Altre volte invece, non mi fa agire. Mi blocca. Si nasconde. Fa il timido. In questo caso però ha fatto il contrario. Mi ha sbloccata. Si è fatto vedere. Ha fatto l’estroverso. 

Non scrivo tutto ciò per cambiare la mentalità delle persone, specie dei maniaci che stanno là fuori. Chi può farlo? Sicuramente una come me. Una qualsiasi, figlia di due operai, cresciuta in un paesino di campagna tra l’odore di letame. 

Non vi voglio insegnare come stare al mondo, come essere donne nel XXI secolo in Italia. Piuttosto vi dico come non essere: non siate come le signore che hanno assistito tristemente alla scena in stazione ma non hanno fatto nulla. Non siate come i signori nel viale che sono rimasti impalati pronti a spettegolare sulle panchine con gli amici. Non sprecate il vostro fiato al bar con le amiche lamentandovi di quanto faccia paura la vostra città se poi siete complici di chi il pericolo lo crea. 

Mi raccomando, per la festa internazionale della Donna, mettetelo lo stato su WhatsApp con una frase riciclata dall’anno prima. Fatevele comprare ‘ste mimose dal marito. 

E mi raccomando però: non bagnatele troppo. Tanto domani le butterete nel cassonetto. Quello accanto alla stazione.

NoSignal Magazine

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