Non sono pochi i dubbi che rimangono dopo i titoli di coda. La serie ha perso la bussola, e non si capisce in quale direzione voglia andare. A questo punto, forse, è meglio lasciar perdere.

Quante volte capita nella vita di idealizzare qualcosa? A tal punto da generare una passione incondizionata, come se avessimo il paraocchi e ci rifiutassimo col tempo di vedere le cose per come realmente sono. Può trattarsi di una persona, un oggetto in particolare, un luogo, o più semplicemente una serie TV. Ecco, sono sicuro che sia capitato a molte persone con La Casa di Carta.

Io ero uno di loro. Me la fece scoprire mio padre, (e già questo è paradossale, grazie a lui ho scoperto capolavori del calibro di C’era Una Volta in America, ma sui prodotti seriali contemporanei lo batto mille a uno, non scherziamo) e guardando le prime due stagioni pensai che fosse perfetta, nel suo essere difettosa. Una trama coinvolgente, il grande colpo alla zecca spagnola, personaggi così tanto stereotipati da risultare fastidiosamente magnetici, contornati da buchi di trama qua e là e da una meravigliosa inverosimilità di fondo. Forse però l’abbiamo idealizzata e fatta nostra per un altro motivo. Dietro gli schermi abbiamo sentito fortemente la presenza di altri appassionati che con noi andavano a formare la “resistencia!”. Contro il sistema? I poteri forti? Il governo? Non è importante, e non lo sappiamo tuttora. Il senso di appartenenza, l’unione che fa la forza e altri slogan del genere trasformarono la produzione spagnola in un vero e proprio culto da venerare incondizionatamente, a prescindere dall’effettiva qualità del prodotto.

“Vi prego fermatevi qui”, ricordo di aver pensato dopo i titoli di coda della seconda stagione. Non vedevo motivo per andare avanti, proseguire una storia che aveva un inizio e una fine contornati con maestria (o quantomeno con ancora un minimo di buon senso). La Casa di Carta è forse la miglior metafora di se stessa. Nessuno di loro, una volta entrato nella zecca, si aspettava di diventare un simbolo per milioni di persone in Spagna e nel mondo. Era una situazione più grande di loro. Allo stesso modo, i produttori sono stati letteralmente investiti dall’idealizzazione dei fan di cui parlavo prima. Non ci pensarono due volte ad accettare l’offerta da parte di Netflix, la piattaforma streaming per eccellenza, colei che tutto compra e tanto distrugge (basti pensare a Black Mirror). Si sa, una volta che si vende l’anima al diavolo, non si torna indietro. Fu così che la serie, purtroppo, proseguì, andando a compromettere quanto di buono era stato fatto. Se all’inizio la trama si reggeva su un’originalità maneggiata con cura dagli sceneggiatori, tenendo alta la tensione intorno alla banda del professore, nella terza stagione si sono avvertiti i primi scricchiolii dalle fondamenta. Se diventi un gigante, è normale che tu faccia rumore quando cadi, e la quarta stagione, di rumore, ne ha fatto parecchio. Tutto sommato, vi erano anche i presupposti per riavvicinarsi alla gloria perduta. La presunta morte di Lisbona e il missile lanciato contro un carro blindato dai beniamini della gente comune non sono poca cosa, si è sprecata un’enorme occasione.

La quarta stagione conferma i sospetti lasciati dalla terza, evidenziando un’imbarazzante mancanza di idee. La rapina alla banca di Spagna, da opera olio su tela si è trasformata in cornice, lasciando spazio a dinamiche interpersonali tirate per i capelli come nella peggiore delle soap. Se per un attimo ci dimentichiamo di tutto, in un certo senso sono puntate godibili, certo, ma che puzzano di già visto. Rivisitazioni caratteriali che non aggiungono nulla ai protagonisti, da cui ci si aspetterebbe quantomeno una maturazione d’intenti, dopo tutto quello che hanno passato insieme. Invece siamo ancora qui ad assistere impotenti a Tokyo paragonata a una Maserati, ad Arturito malmenato da Denver, e a colpi di scena più o meno grossolani capaci di far perdere significato al concetto stesso di “deus ex machina”. Senza contare il solito femminismo obbligato che nelle serie TV di oggi viene più abusato di Sasha Grey ai tempi d’oro. Anche qui non si sono risparmiati.

Ed ecco che quando si tocca il fondo, di solito si cerca di risalire. In questo caso, purtroppo, si è continuato a scavare. Sì, perché abbiamo dovuto assistere allo stupro televisivo del miglior personaggio dall’inizio della serie, il vero salvatore della terza stagione. Berlino, nella tomba da un pezzo, si sarà rivoltato non poco, visti gli inutili flashback riempitivi che nulla aggiungono (semmai tolgono) alla stagione da un punto di vista narrativo.

Da vecchio fan della serie, è difficile recensire questa stagione, è la solita vecchia storia della vacca da mungere finché c’è latte a disposizione, a discapito del processo creativo, d’altronde l’annuncio di una quinta stagione non fa che confermarlo.

Andando avanti così, se una casa è fatta di carta, prima o poi rischia di crollare.

Giorgio Rolfi
26 anni, di cui 19 trascorsi nella musica.  Cinema, videogames e dipendenza da festa completano un carattere non facile, ma unico nel suo genere... Ah, dimenticavo, l'umiltà non è il mio forte. 

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