Non conoscevo Hevrin Kalaf fino a questa settimana, quando ho letto della sua morte. Ho letto, ho visto, ho pianto. Perché nonostante non avessi idea della sua esistenza fino a pochi minuti prima, la sua storia è così potente da non poter passare inosservata.

Hevrin Kalaf aveva 35 anni, ed è stata un’attivista curda. Si batteva per la coesistenza pacifica dei curdi, cristiano-siriaci e arabi, lottava per i diritti delle donne. Era segretaria generale del Partito del Futuro siriano. Nella sera di sabato sera stava viaggiando insieme al suo autista verso la città di Qamishli. L’auto è stata fermata, loro due trascinati fuori e uccisi.

Io sabato sera stavo ballando in un locale, festeggiavo un compleanno, in mano un drink, mi ero vestita bene, ero serena e ben truccata.

Hevrin veniva picchiata alla testa con un oggetto pesante, così ci dicono le autopsie, che le ha procurato fratture, come è stata colpita alle gambe, spaccate, nella parte bassa, e con un’arma appuntita nella parte alta. È stata trascinata per i capelli così forte da procurarle una parte di distacco del cuoio capelluto: uno scalpo da viva. Poi le hanno sparato con armi militari da vicino, alla testa. Ed è morta.

Come scrive Maurizio Crippa, de Il Foglio, da cui ho preso le informazioni relative all’autopsia: “Verrebbe solo da tacere. Ma non si può tacere perché questa barbarie è ciò che sta avvenendo”.

Coloro che hanno fatto questo orrore sembravano in un primo momento essere dell’Isis, ma poi si è capito che sono milizie filo-turche che combattono con e per Erdogan. E guarda caso il 5 ottobre, proprio a Qamishli, Hevrin aveva parlato contro Erdogan e contro la sua politica espansionistica. Sette giorni dopo veniva trucidata.

La sua morte colpisce tutti noi, ma oserei dire principalmente tuttE noi che facciamo fatica ad alzare la testa quando ci fischiano per strada, a stento rispondiamo quando il nostro ragazzo ci fa notare la gonna troppo corta. A noi che nonostante abbiamo avuto l’imprinting di una società democratica, moderna, femminista, d’avanguardia, tecnologica, nonostante le possibilità che sempre di più si stanno facendo paritarie, noi le diamo per scontate. E sbagliamo. Le diamo per già conquistate e non ci rendiamo conto che la conquista dei diritti implica sempre la salvaguardia di essi. Chi conquista la libertà non può credere che sia implicito che sarà così anche per i propri figli. Così dovrebbe essere, ma così non è. Perché il tesoro che le nostre bisnonne, nonne, madri ci hanno lasciato è un dono enorme di cui dobbiamo avere cura.

Hevrin Kalaf lo sapeva bene questo. Ed è morta proprio perché lo aveva capito. È stata uccisa perché c’è qualcuno che ha pensato che lei non avesse il diritto, invece, di pensare, conoscere, agire. Ed è per questo che ha bloccato la sua auto, l’ha fatta uscire e l’ha uccisa a colpi di mitragliatrice.

È che sia uno Stato a compiere questo scempio è inconcepibile. Nel XXI secolo non è accettabile che si muoia, pardon, che si venga assassinati per aver il coraggio di lottare per i propri ideali. Perché non è questione di coraggio, ma di diritto.

Io non so cosa abbia pensato Hevrin Kalaf prima di morire, non so se abbia maledetto tutti, non so se abbia pianto, non so se abbia guardato con sfida e odio quei bastardi. So però che la sua morte non deve essere vana. So che la sua morte deve ricadere su tutti noi, uomini e donne, perché lei lottava per noi. E noi glielo dobbiamo.

E non solo a lei, ma anche al suo autista, anche ai 7 civili uccisi nella stessa serata, a colpi di mitragliatore, sempre dagli stessi bastardi, nella stessa zona, a sud di Tel Abyad, città siriana.

Glielo dobbiamo, non possiamo stare solo a guardare. A guardare quei video che gli stessi assassini hanno girato. Quei video in cui i cecchini calciano i morti e dicono “questo è il cadavere dei maiali”.

Il 10 ottobre si ricordano i 23 giorni di resistenza della città di Alba, il 16 ottobre la deportazione del ghetto ebraico di Roma (1024 deportati, 16 tornati) e sempre il 16 ottobre si ricorda il pugno alzato dei due campioni olimpionici Tommie Smith e Jhon Carlos nel 1968 a pugni alzati, guanti neri e piedi scalzi, in protesta contro lo stato americano e la sua politica contro i diritti dei cittadini neri.

Ricordare per non dimenticare.

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