Le Nuvole, per l’aristocratico Aristofane, erano quei cattivi consiglieri, che a detta sua, insegnavano ai giovani a protestare; la nuvola più pericolosa era indubbiamente Socrate, che indicava ai suoi allievi un nuovo tipo di atteggiamento mentale con una particolare predisposizione al comportamento provocatorio nei confronti del governo conservatore dell’Atene di quei tempi.

Che significato assumevano per De Andrè le Nuvole del suo album?

Forse erano da intendersi come le figure ingombranti della nostra vita, coloro che sono terrorizzati dal nuovo perché individuano in esso una potenziale minaccia per la loro posizione di potere.

In questo disco De Andrè esprime un pensiero forte con dichiarazioni chiare, accusando accidia fra le masse popolane del suo tempo, dalle quali non avanzava alcuna protesta, non un segno di disapprovazione. La voce del popolo si era ridotta ad un coro di cicale.

Come si presenta ai giorni nostri, la comunità? È in grado di opporsi? Di dare importanza al valore del dissenso?

Questo è un tema sul quale sarebbe importante riflettere.

Tuttavia, in contrapposizione con questo ideale di collettività, De Andrè amava il pensiero solitario, e il suo individualismo anarchico era una lotta per pensare liberamente ed essere svincolato dal gregge. Il principio dell’anarchia si fondava sul darsi delle regole prima che fosse qualcun altro a farlo, e questo lo affrancava dalla falsità e dall’ipocrisia dei preconcetti.

In lui era radicata la drammatica schizofrenia di trovarsi contemporaneamente da entrambi i lati della barricata, anarchico in una famiglia borghese, e questo conflitto contribuì in maniera decisiva a forgiare la sua indole scontrosa e a tratti ‘maledetta’.

In breve tempo maturò la consapevolezza che gli anarchici erano dei miserabili pronti ad aiutare coloro che erano ancora più miserabili di quanto loro stessi non fossero già, e fu così che si avvicinò ai reietti ai margini della società, alle puttane, agli omosessuali, ai ladri e agli ubriaconi, ai nani e addirittura agli assassini, scoprendo in loro una maggiore autenticità che nelle persone che era solito frequentare nella Genova bene.

Proprio in questi vicoli, addentrandosi nell’oscurità dei carruggi fino al grigiore squallido di Via del Campo, Fabrizio trovò l’umanità che lo spinse a sviluppare una straordinaria sensibilità ed un innato senso di rispetto e solidarietà, caratteristiche che si unirono all’insofferenza alla disciplina e soprattutto alla voglia di libertà, plasmando la sua fortissima personalità.

Ciononostante, Fabrizio era il primo a non trovare una collocazione e detestava il fatto che le persone cercassero in lui risposte che non era in grado di concedere loro: le canzoni che scriveva gli appartenevano solo in parte, perché dichiarava di non essere che un mezzo attraverso il quale la canzone stessa prendeva vita, rimanendo però una storia appartenente a se stessa. Il suo era semplicemente il ruolo di rapsodo, ma rimaneva un osservatore esterno dei suoi versi.

Per questo motivo Amico fragile è forse la canzone più importante che abbia mai scritto, sicuramente quella che più gli appartiene, perché è un pezzo di vita sua.

Nel 1970 rimase affascinato dalla lettura dell’Antologia di Spoon River -dalla quale estrasse l’album ‘Non al denaro, non all’amore, né al cielo’- perché gli servì per realizzare che i morti si esprimono con estrema sincerità dal momento che non hanno più nulla da aspettarsi o da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.

A vent’anni dalla dipartita, lo ricordiamo anche come un autocritico per il quale pubblicare era una responsabilità morale e culturale molto sentita, un poeta dai cui testi prorompeva una luce abbagliante, filtrata attraverso un’ironia feroce e una straordinaria potenza descrittiva.

Guardando i nomi dei Nobel italiani e dato il riconoscimento a Bob Dylan, una domanda può sorgere spontanea: è possibile che tra Giosuè Carducci, Luigi Pirandello, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale e Fo non ci fosse posto anche per il simbolo della nostra canzone d’autore?

Quest’ultima non è mai stata considerata all’altezza del poesia, contrariamente a quanto sostenuto da Vecchioni, secondo il quale tra le varie poetiche, quella in musica è altrettanto letteratura al pari di altri tipi di letteratura, in quanto Ia valenza della parola rimane tale sia che essa sia accompagnata dalla musica, sia nel momento in cui è scritta su un foglio.

In ogni caso posso supporre che il Faber sia riuscito nel suo principale obiettivo di morire con una vasta collezione di ricordi senza traccia di alcun rimpianto: Infatti rispetto a questi ultimi, preferiva indubbiamente i rimorsi.

Si ha quasi la percezione di sentire la sua risata risuonare, mentre ammette che in effetti sembra il discorso di un figlio di puttana.

NoSignal Magazine

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