Se un anno fa mi avessero detto che Sanremo 2020 sarebbe stato il miglior Festival degli ultimi vent’anni, a essere sinceri ci avrei pure creduto. Vuoi per Amadeus, per cui provo un’empatia incondizionata fin dai tempi di Pedro e la sua cipolla antologica, vuoi per Fiorello, lo showman che l’Italia non merita, ma di cui ha dannatamente bisogno, posso ammettere di essermi divertito parecchio. Probabilmente mettendo insieme le canzoni dell’anno passato (con le dovute eccezioni) con questa conduzione “amarelliana”, parleremmo ora del festival perfetto, ma si sa, la televisione italiana è affetta dalla sindrome del “vorrei ma non posso” da tempo immemore.

Fatte le dovute premesse, non mi sarebbe dispiaciuto recuperare qualche ora di sonno anziché stare qui a scrivere, per i motivi che conosciamo tutti.

Lungi da me ergermi all’Aldo Grasso della situazione, ma fin dalla prima serata si è avvertita una qualità televisiva difficile da trovare in tempi recenti (anche qui, con qualche eccezione).

Come da tradizione non sono mancate le polemiche pre-festival, condite stranamente da una leggerissima impronta maschilista, o considerata tale. Ecco, tirando le somme, si può affermare tranquillamente che le dichiarazioni in conferenza stampa di Amadinho si sono rivelate veritiere, e pure un po’ galeotte. Parliamoci chiaro, cosa sarebbe mancato a questo festival se avesse lasciato a casa la Diletta nazionale, Sabrina Salerno (la Beyoncé dei meccanici d’officina), la fidanzata di Ronaldo, o quella di Valentino? Tolto lo share, nulla, perché sommandole si ottengono a fatica mezzo neurone e un quarto di donna. Bisogna solo ricordarsi di buttarle nella plastica, Greta Thunberg ci ringrazierebbe. Menzione d’onore invece per le rimanenti, fiere rappresentatrici delle quote rosa, con Rula Jebreal e Alketa Vejsiu capaci di rubare letteralmente la scena.

Ordunque, via con le esibizioni dei cantanti in gara, e come sempre, c’è chi sale e c’è chi scende. Non mi soffermerò ad analizzarle tutte, specie le solite cariatidi ammesse in gara giusto per accontentare i soliti nostalgici della canzone italiana dura e pura. Negli ultimi anni, dalle scuderie dei talent show, l’unico vero cavallo di razza salito sul palco dell’Ariston è stato Marco Mengoni, prima e dopo di lui poco o niente (no, neanche Emma), ma qui si parla di un’artista a tuttotondo, perché il caro vecchio Morgan, quando non è impegnato a tirar fuori polemiche dal cilindro o sfanculare gli amici che lo invitano al festival solo per essere ammessi a loro volta, ci vede lungo, lunghissimo.

Quest’anno abbiamo avuto Riki, l’ennesimo idolo decaduto delle ragazzine -in un’epoca dove ormai anche loro preferiscono il trap boy-, Alberto Urso, il povero tra i tenori riciclatosi malamente tra i cantanti moderni, a dirla tutta un debole con i forti che prova ad essere forte con i deboli (pensa te che sfiga), Anastasio, la brutta copia di Rancore, Giordana Angi, bella voce e già firma importante prima di Amici, peccato per la canzone decisamente debole, ed Elodie, tra tutti la più convincente (e sexy), anche se gran parte del merito va a Mahmood, talento indiscusso.

Immenso debutto all’Ariston di Piero Pelù, dopo quarant’anni di onorata carriera, tra periodi solisti e in compagnia dei Litfiba. Entra, si mangia il palco, e se ne va. Un veni, vidi, vici rimasterizzato in chiave rock per il concorrente più carismatico di quest’anno, e a dirla tutta almeno il podio se lo meritava.

A dipingere Sanremo con sfumature indie-alternative ci hanno pensato Levante e i Pinguini Tattici Nucleari. Pur non avendo mai apprezzato particolarmente nessuno dei due, va dato loro atto di aver sfoderato performance non indifferenti, specie nel caso della cantautrice siciliana, una delle migliori dal vivo su tutta la linea. Dopotutto, se la qualità c’è, perché non metterla in mostra? Menzione d’onore per Tosca, anche volendo risulterebbe difficile trovarle un difetto. Eleganza, raffinatezza e tecnica sopraffina si fondono in armonia con un brano perfetto per le grandi occasioni. Una delle migliori in assoluto. La stessa cosa si potrebbe dell’eriditiera per eccellenza, se si parlasse in termini di audience. Non a caso la produzione ha scelto di mettere quasi sempre la cara Elettra Miura tra gli ultimi in scaletta, in modo da portarsi dietro i millenials fino alle due di notte. Chiamali scemi. Per quanto riguarda l’ “esibizione”, credo che la bravura sia capitata alla Lamborghini come la bellezza alla Leotta, con la differenza che il suo chirurgo di fiducia si chiama autotune.

#epoicemorgan. La diva per eccellenza, colui che tutto sa, tutto può e tutto distrugge. Anche questa volta non ce la racconta giusta, e piano piano verranno fuori nuovi dettagli sulla vicenda per cui sarà ricordato maggiormente questo festival. L’ha portata a casa anche questa volta, ovviamente a suo modo.

Di Achille ce n’è uno, tutti gli altri fan nessuno. Inutile spendere ancora parole sul messaggio di un artista che negli ultimi due anni ha fatto parlare di sé per mille motivi, ci ha già pensato la mia collega Bianca Garelli. Dal punto di vista musicale, è stato abile a mettere in scena uno spettacolo teatrale fatto e finito, mascherando in parte la debolezza della canzone. L’anno scorso, con “Rolls Royce” era tutto un altro paio di maniche, ma come ha detto lui stesso, se fosse andato al Festival con l’intenzione di vincere, avrebbe portato altri brani. Lauro, insieme a Boss Doms non sono mai stati etichettabili nel corso della loro carriera, dalla jungle trap fino al rock dell’ultimo album, ed è questa la loro vera forza. Tolta la canzone, il migliore per distacco. Che dire, è stata forse l’edizione più godibile in tempi recenti, tuttavia nel momento in cui ci si azzarda a pensare ad una svolta definitiva del festival più prestigioso della musica italiana, — anche sull’onda di un vincitore tanto improbabile quanto necessario come Mahmood l’anno passato — ecco che l’impronta tradizionalista torna a farsi sentire con la vittoria di Diodato, e cosa vuoi farci…

Achille Lauro ci sarà anche cascato di nuovo, ma noi sono settant’anni che ci caschiamo.

Giorgio Rolfi
26 anni, di cui 19 trascorsi nella musica.  Cinema, videogames e dipendenza da festa completano un carattere non facile, ma unico nel suo genere... Ah, dimenticavo, l'umiltà non è il mio forte. 

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