Nasce nel 1993, in America, figlio di immigrati ebraici.

Il grande critico letterario Harold Bloom lo ritiene uno dei maggior narratori americani dopo Faulckner, definendolo, “il culmine di un enigma irrisolto nella letteratura ebraica dei secoli XX e XXI. Le complesse influenze di Kafka e Freud e il malessere della vita ebraico-americana produssero in Philip un nuovo genere di sintesi”

Tra le sue opere fondamentali ricordiamo Il lamento di Portnoy e Goodbye,Columbus.

Non ottenne mai il Nobel, nonostante fosse stato più volte candidato e tenendo anche conto dei numerosi premi ricevuti durante la carriera, primo fra tutti Il National Book Award per il racconto lungo Goodbye, Columbus.

È stato il terzo scrittore americano nella Storia ad aver avuto il privilegio di veder pubblicata la sua stessa opera omnia dalla Library of America mentre era ancora in vita.

Le sue opere presentano tre grandi aspetti che si rincorrono tra loro per tutta la carriera dello scrittore:

· Identità personale e collettiva,

· Forti citazioni autobiografiche in primis usando come suo personale alter ego personaggi (Nathan Zuckerman) che riprendono sue esperienze di vita, come l’infanzia a Newark, New Jersey. Oltre a personaggi che sembrano prendere ispirazione da coloro che hanno preso parte alla vita dello scrittore: la prima moglie Margaret Martinson che morì in un incidente d’auto alcuni anni dopo la loro separazione, come la seconda moglie Claire Bloom con la quale la separazione non sembra esser stata serena come si può evincere dalla biografia di lei e da alcuni passi dei romanzi di Roth (vedi Ho sposato un comunista),

· Psicoanalisi, laicismo di matrice ebraica e satira.

il 10 novembre 2012 alla età di 79 anni dichiarò di voler abbandonare la carriera letteraria. “Ho fatto del mio meglio con i mezzi a mia disposizione. È esattamente quello che direi oggi del mio lavoro. Ho deciso che ho chiuso con la narrativa. Non voglio leggerla, non voglio scriverla, e non voglio nemmeno parlarne” oltre a dichiarare di aver dato come disposizione ai suoi parenti di distruggere il suo archivio personale una volta morto.

In questo articolo vi voglio presentare Pastorale Americana, scritto nel 1997 e vincitore del premio Pulitzer nel 1998.

Questo romanzo è incentrata sulla storia di Seymour Levov “Lo Svedese” e racconta dell’inesorabile quanto inaspettato smembramento della vita di un uomo che in apparenza ha tutto, ma che si ritrova con niente.

Trovo che questo sia uno dei personaggi meglio creati della storia della letteratura a me conosciuta: parliamo di un uomo buono, il cui unico scopo nella vita è affidarsi alle cose belle e semplici che la vita sembra offrirgli: prestanza fisica, un buon lavoro, una fantastica donna come moglie, una figlia dolce e intelligente e una casa da sogno. La vita gli riserva questi privilegi, che lui stesso riesce a cogliere, accettando questa vita semplice che cura giorno per giorno, donando tutto sé stesso alla moglie, alla figlia, alla famiglia, al lavoro.

E poi? E poi tutto esplode. La figlia diventa una militante sessantottina, pronta a schierarsi in difesa del Vietnam e, combattendo per una giusta causa, percorre però un sentiero che non può che essere sbagliato: la dolce Merry piazza una bomba nell’emporio della cittadina dove Levov ha deciso di coltivare la sua vita perfetta, dove lei stessa è cresciuta e con quella bomba non solo uccide il medico del paese, non solo distrugge l’apparente benessere della cittadina, ma devasta profondamente suo padre. Lo Svedese non si capacita del male causato dalla figlia al mondo e a sé stesso e cerca, per tutto il resto della sua vita, di capire dove e perché ha sbagliato. Rincorre la figlia nel presente, che nel frattempo si è data alla macchia e rincorre sua figlia nel passato, in cerca di un dettaglio, di una scintilla a cui poter fare risalire tutto l’orrore in cui si è trovato catapultato. Orrore che non intacca solo lui, ovviamente, ma sua moglie, la sua casa, il suo lavoro, i suoi genitori.

La peculiarità di questo romanzo sta nel minare sistematicamente ogni sicurezza del protagonista, pagina dopo pagina, oltre che ogni sicurezza del lettore. Inizia presentando una coppia che istintivamente sta sul cazzo: lui maschio bianco americano, campione sportivo al college, proprietario di una ricca industria di guanti in pelle (la Newark Maid); lei ex Miss New Jersey, finalista a Miss America, tanto bella quanto rigida. Al contrario la figlia Merry, per cui istintivamente si prova simpatia: balbuziente, grassoccia, troppo lontana dal fascino della madre, troppo complessa per l’amore incondizionato, ma semplice, che le riserva il padre.

Niente, però, è come sembra. Roth ci accompagna nella psiche delle Svedese presentandoci un personaggio buono, ma tutto meno che stupido. Un personaggio che ha donato la proprio vita per gli altri: aiutare la moglie irlandese a scappare da una situazione di malessere economico e disagio sociale, i genitori a portare avanti l’azienda e la tradizione ebraica, al contrario di Jerry, il controverso fratello e, per ultima, ma non per importanza, la figlia, alla quale nulla è stato negato (l’amore, il conforto, l’affetto, il sostegno) e verso la quale così tante volte si è schierato nonostante le scelte politiche e lo stile di vita così distanti da lui.

Anche Dawn, la moglie, è un mondo: così forte e determinata, succube dell’immagine stessa di Miss New Jersey, dalla quale cerca costantemente di emanciparsi negando la sua stessa prestanza fisica e il suo fascino e diventando una imprenditrice di capi di bestiame. Distrutta dal gesto folle ed estremo della figlia, dimentica delle sue stesse volontà, cade in depressione e riesce a risollevarsi solo dopo una plastica al viso che le fa tornare la voglia di vivere, ma che la porta lontano da quello che aveva prima: la sua casa, sua figlia e suo marito.

Pastorale Americana è un ritratto spietato della condizione americana dagli anni ’50 ai ’70.

Spietato perché non omette alcun particolare nel descrivere una società improntata sul singolo, sul denaro, sul consumo che ha portato la generazione sessantottina a ribellarsi e a lottare per nuovi valori. Spietato perché racconta come questi nuovi valori siano stati raggiunti, ovvero tramite la distruzione di intere famiglie.

Mi ha colpito leggere come Roth si rifaccia ad una filosofia hegeliana, dove l’individuo altro non è che una marionetta nelle mani della Storia. Una Storia che ha deciso di cambiare e di portare con sé le figlie della rivoluzione, figlie anche di quella classe puritana americana, i così detti wasp, che si vedono dilaniati, nelle loro case perfette, dalle imperfezioni mortali delle loro stesse creature. Siamo messia nudo di fronte alla disperazione di un padre (non di una madre, il cui rapporto è fisico, avendola portata alla luce, ma meno mentale) che cerca di salvare la figlia e annaspa cercando di trovar una soluzione ad una situazione che soluzioni non ha. Nessuna soluzione se non l’abbandono o la morte, che forse per un genitore sono sinonimi.

Seguiamo lo Svedese nel suo cammino verso l’orrore, lui che aveva avuto come unica velleità quella di vivere una vita felice.

Quale sia la morale di questo romanzo non so dirlo: tutti noi dobbiamo arrenderci alle leggi meccanicistiche che regolano l’Universo? Tutti noi dobbiamo essere pronti all’Orrore che inevitabilmente lacera la vita, anche la più perfetta fra tutte? Oppure l’unica colpa che abbiamo è quella che deriva da noi stessi: siamo esseri incapaci di capire il mondo, incapaci di ascoltare gli altri perché in fondo qualsiasi sia la spinta che proviamo verso il prossimo, anche la più altruistica, altro non è che il riflesso della nostra egoistica volontà?

Perché il punto più sconcertante di tutto il romanzo sta nel fatto che una volta entrati nel mondo dello Svedese, siamo partecipi con lui di tutto il male che egli sta vivendo. Vicini a lui nel dolore che sta provando ci troviamo, come lui, di fronte alle recriminazioni che gli vengono lanciate in faccia dai suoi cari: suo fratello, sua moglie, sua figlia. Le persone a cui ha dedicato la sua vita si ribellano e gli urlano in faccia quanto stupido è stato a pensare di fare del bene quando l’unica persona a cui stava facendo del bene era sé stesso.

Siamo dinnanzi alla metafora dell’uomo che incorpora in se stesso il sentire di una intera civiltà, l’America. La metafora dell’uomo che si sgretola e con esso il Sogno americano di cui si era fatto portavoce.

E così Philip Roth ci lascia. Il mondo personale di Levov si sfalda, mentre sullo sfondo assistiamo alle udienze dello scandalo Watergate. In bilico tra due realtà, tra due visioni tanto opposte, quanto complementari, della vita.

E come ogni buon romanziere non ci dà un vero finale, perché forse il finale tocca a noi darlo, mettendo in conto il nostro stesso modo di vivere.

Come afferma lui stesso «La fine è così immensa che è poesia in sé. Non c’è bisogno di molta retorica. Basta affermarla con semplicità».

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