Hollywood , 25 febbraio 2019, silenzio in sala, i presentatori stanno per aprire la busta contenente il titolo del miglior film d’animazione uscito nel 2018.

Tra i contendenti ci sono pellicole di tutto rispetto, tra i quali “Gli Incredibili 2” della Pixar, “L’Isola dei Cani” di Wes Anderson, “Ralph Spacca Internet” (sempre della Disney) e “Spider-Man: in to the Spider-verse” della Sony; ma è proprio di quest’ultimo che parleremo, poiché l’ambita statuetta dorata è stata meritatamente consegnata alla pellicola targata Sony.

Una vittoria inaspettata, oserei dire uno smacco enorme al colosso dell’intrattenimento Disney, la quale ha quasi monopolizzato la categoria negli scorsi anni con pellicole fantastiche, ma che non potevano reggere contro il campione della Sony.

Ed ecco il motivo del mio “meritatamente” di poco fa: perché non si è mai visto un lavoro così vasto e pieno di sorprese sia in sceneggiatura che nei design grafici, ambientali e di personaggi; come primo esempio, ogni singolo Spider-Man presente nel film è animato con tecniche e design differenti dagli altri, ma comunque consoni al carattere del singolo personaggio e in equilibrio con l’universo narrativo nel suo insieme, presentando allo spettatore il debutto sugli schermi di Miles Morales, ma anche una storia interessante, sempre fresca e con momenti comici che alleggeriscono una trama a tratti matura. La ricetta giusta per un film pienamente godibile dagli appassionati, ma anche dai neofiti.

Un lavoro incredibile, soprattutto per il grado di difficoltà portato dal far convivere nella stessa storia universi narrativi estremamente diversi come l’universo Marvel Noir o la linea temporale di Spider-Gwen, oppure ancora l’esilarante Spider-Ham (la versione ragnesca di Porky Pig).

Infatti, da una parte abbiamo un’animazione tridimensionale a poligoni (cioè la classica CGI tipica delle pellicole da 10 anni a questa parte), mentre dall’altra abbiamo un’animazione bidimensionale con, nel caso di Spider-Noir e Spider-Ham, effetti di luce e ombre date da effetti che riproducono i retini tradizionali e, nel caso di Peni Parker, l’animazione caratteristica degli anime.

Ma tutti i vari stili presentati hanno due caratteristiche comuni: la perfetta tridimensionalità percepita dagli spettatori (nonostante la presenza di animazioni 3D e 2D) e il costante richiamo al disegno classico e alle meccaniche del fumetto, come la presenza di onomatopee, scene divise in vignette, la presenza di linee di tratteggio sui personaggi e balloon qua e là per tradurre frasi in lingua straniera o per mostrare i pensieri dei singoli personaggi; perfino il senso di ragno è disegnato come nei fumetti classici, sotto forma di saette che escono dalla testa degli Spidey presenti.

Come scritto prima, i richiami ai fumetti sono moltissimi, non solo nello stile di disegno, ma anche nei riferimenti portati dalle sviluppo degli storyboard lungo tutta la pellicola; giusto per fare un esempio, la breve sequenza di presentazione di ogni Spider-Man inizia mostrando la copertina dell’albo d’appartenenza, oppure il caro Miles Morales, quando acquisisce i suoi poteri, scopre che sta vivendo le stesse metamorfosi di Peter Parker, grazie alla lettura del famosissimo Nr 15 della serie Amazing Stories, ossia la primissima apparizione di Spidey su carta.

Tutte cose bellissime che fanno sbavare molto un fumettista come me, ma “Into the Spider-Verse” non è solo riferimenti alle origini cartacee del nostro Spidey, ma anche un film generato da una mastodontica sperimentazione grafica e da una volontà di proiettare l’animazione verso nuovi orizzonti visivi, portando un’animazione estremamente appagante per l’occhio, ricca di colori sgargianti ed effetti che rasentano lo psichedelico, incredibilmente dinamica e fluida, con personaggi cartooneschi e dalle linee molto essenziali. Il tutto accompagnato da un ritmo narrativo sempre ben scandito e flessibile, ma senza momenti troppo lenti o morti e da una colonna sonora eccezionale nonché pienamente azzeccata con il contesto presentato.

Perfino la scelta del villain principale mi ha piacevolmente stupito: Kingpin. Uno dei villain più marginali di tutto l’universo Marvel, portato sul grande schermo solo nel film su Daredevil nei primi 2000 e, onestamente, finalmente riusciamo a vederlo in una versione che rende giustizia al fumetto, mostrando anche un genuino lato umano del soggetto, in mezzo alla sua malvagità e freddezza.

Insomma, “Into the Spider-Verse” ha meritato a pieni voti l’Oscar, per la ventata d’aria fresca portata nel mondo dell’animazione monopolizzato da modelli poligonali invariati da 15 anni e storie sempre troppo “family friendly”. Era ora che l’animazione tornasse a portare una sorta di innovazione nei canoni estetici imposti dalla Pixar (che io reputo praticamente superato, ormai).

Insomma, un piccolo articolo di elogio per un film gargantuesco, una vittoria inaspettata e anche un gran motivo d’orgoglio per noi italiani, visto che compaiono due compatriote nella genesi di quest’opera: l’ormai famosissima Sara Pichelli, creatrice vera e propria del nostro Miles Morales per la testata “Ultimate Comics: Spider-Man” nel 2011 e la meno nota (spero non per molto ancora) Eva Bruschi, diplomata alla Scuola Internazionale di Comics a Firenze, la quale si è occupata della stesura degli storyboard per il film tra il 2015 e il 2017.

Per concludere, cito la mia reazione media lungo tutta la proiezione del film:

“WOAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!!!”

(Se non ci credete, correte a vedere il film, svelti.)

NoSignal Magazine

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