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A un certo punto intorno alle otto di ieri sera ho saputo da Instagram che David Lynch era morto e mi è venuto da pensare immediatamente a quel vecchietto dell’Iowa che intraprende un lungo viaggio in sella al suo tagliaerba per raggiungere il fratello gravemente malato che vive in Wisconsin e con il quale non parla da dieci anni. E siccome ogni volta che ripenso a questo film non posso fare a meno di ripensare alle musiche di Angelo Badalamenti, ho aperto Spotify e per i cinquantadue minuti successivi ho ascoltato il soundtrack di The Straight Story: tredici brani inquieti e meravigliosi, al termine dei quali una strana seppur vagamente riconoscibile tristezza ha cominciato a torcermi le budella. Dico strana e allo stesso tempo vagamente riconoscibile perché se da un lato le morti dei grandi mi lasciano in molti casi indifferente (nella stessa misura in cui ci lascia indifferenti la morte di uno sconosciuto), dall’altro non è la prima volta che mi ritrovo profondamente turbato dalla scomparsa di una cosiddetta celebrità. Mi è successo qualcosa di simile con Charlie Watts, storico batterista dei Rolling Stones, tre anni e mezzo fa. 

Chi mi conosce, però, potrebbe obiettare che con Watts, così come con gli altri membri della band, condivida quel legame eterno e inscindibile, talvolta persino più stretto di certe parentele, che tiene unite le persone ai propri eroi d’infanzia o di gioventù. Passino allora gli Stones, la mia educazione musicale. Del resto conosco tutti i loro album, credo di aver ascoltato tutte le loro canzoni, sono stato a tre dei loro concerti, e se mi venisse domandato qual è il mio musicista preferito, risponderei senza esitazione che non è un musicista, ma una band inglese, originaria del Kent. Slittato verso il mito, si capirà quindi che Charlie Watts non fa testo, come si suol dire. E invece David Lynch? Può lo smarrimento ambiguo che provo per la sua morte essere in qualche modo giustificato? È ovvio che ho amato Blue Velvet e ho perso il conto delle volte che ho guardato Mulholland Drive. È ovvio che anche io considero Twin Peaks l’antesignana delle serie tv moderne. E tuttavia mentirei se dicessi che sono cresciuto con i suoi film, mentirei se dicessi di averli visti tutti. Dunque?

Dunque due estati fa vivevo con un groppo d’ansia incastrato nel plesso solare. Uscivo poco di casa, fumavo troppe sigarette. I gesti quotidiani più semplici mi fiaccavano a tal punto che nemmeno ci provavo a nascondere il mio stato d’animo. Pensavo: uscirò mai da tutto questo? Alla fine credo che la cosa più onesta da dire sia che stavo male. 

Mentre la vita mi costringeva a seguirla lungo sentieri impervi, una mattina ho letto una citazione attribuita a David Lynch, che sul momento deve avermi colpito molto perché l’ho segnata sul taccuino: «Alcune cose succedono per rimetterci in moto». È una frase banale, lo so, sembra lo slogan di un sedicente mental coach. Ma, forse anche a causa del nome in calce al virgolettato, queste parole hanno dribblato le mie difese immunitarie e mi sono apparse, in quel momento, quell’estate, come una specie di promessa. Il maestro David Lynch, ora nei panni di oracolo, mi poggiava una mano sulla spalla e bisbigliava qualcosa al mio orecchio. Uscirò mai da tutto questo? Sì. 

David Lynch
Alessandro Keflux (2014). Lucca [Fotografia]. Flickr.

La citazione che ancora oggi campeggia sul mio taccuino è tratta da The Art Life, documentario del 2016 diretto da Jon Nguyen, che regala uno sguardo intimo sulla vita e sul processo creativo di David Lynch. Non penso di rovinarvi il piacere raccontandovi brevemente di cosa tratta. Attraverso aneddoti sulla sua infanzia, filmati della sua giovinezza e ricordi delle esperienze che hanno plasmato la sua arte, The Art Life è un’opera che non si concentra tanto sulla carriera cinematografica di Lynch, ma piuttosto sulle sue radici artistiche e sul suo lavoro come pittore. Diciamo pure che è un affresco della sua personale filosofia di vita, intrinsecamente legata all’arte (ovviamente), alla spiritualità (per decenni Lynch ha praticato meditazione trascendentale, sostenendo che è come fluttuare in un ascensore cui all’improvviso tagliano i cavi), ai sogni. The Art Life è il risultato della cosa che Lynch temeva maggiormente da giovane: ciò che sarebbe potuto scaturire dall’incontro di tutti i suoi mondi. Mondi che col tempo non solo si sono incontrati, ma ne hanno costituito uno nuovo, onirico e misterioso e stupefacente, abitato dal vegliardo David che riempiva i suoi film di conigli e trovava nel caffè una via d’accesso alla beatitudine; un mondo bizzarro e immaginifico, ma non per questo meno importante, frequentato da Audrey Horne e dall’agente Cooper, da Dorothy Vallens e da Frank Booth, perché il male esiste ed è stupido fare finta di non vederlo; un mondo abitato da noi, infine, che un po’ ci piace immaginarci come suoi discepoli, e non abbiamo potuto fare a meno di addolorarci, ma anche sorridere, cinque mesi fa, leggendo il comunicato con cui annunciava l’addio al cinema: «Sì, ho un enfisema dovuto ai molti anni di fumo. Devo dire che mi piaceva molto fumare, e amo il tabacco – il suo odore, accendere le sigarette, fumarle – ma c’è un prezzo da pagare per questo piacere, e il prezzo per me è l’enfisema. Ho smesso di fumare da oltre due anni. Recentemente ho fatto molti esami e la buona notizia è che sono in ottima forma, tranne che per l’enfisema». 

Un mondo che, anche se può sembrare assurdo, aveva, ma che dico aveva, ha i suoi modi di abitarlo. E oggi soffriamo la morte di David Lynch per metterli al sicuro. ♦︎