Nella mia tesina per la maturità a giugno dello scorso anno, ho parlato del ruolo della donna nella letteratura inglese e in quella spagnola. Mi ricordo che avevo scritto “la parola Donna è la parola più facile da pronunciare ma la più difficile da capire”. Mi permetto di prendere in prestito quel vestito che ho dato alla parola “donna” e lo faccio indossare alla parola “diversità”. In effetti, ripetiamo almeno una media di dieci volte al giorno l’aggettivo “diverso” ma alla fine non ne capiamo mai il senso. Lo usiamo sempre con quel pizzico di amaro, con una pennellata di grigio che alla fine rende la parola “diversità” una parola triste che sa di una giornata nuvolosa con possibili precipitazioni nel pomeriggio della quotidianità.

Io invece, quando penso alla parola “diversità”, penso all’asilo. Quella fase della vita in cui non ti ricordi molto ma quel poco che ti ricordi ha un suo perché. Non a caso ci ricordiamo i dispetti di alcuni bambini anche a distanza di 20 anni, ci ricordiamo i giochi, i primi amichetti. E proprio all’asilo che ho conosciuto la parola “diversità” e ne ho avuto subito un approccio naturale e forse questo spiega la necessità che ho di non etichettare nessuno. Ho conosciuto la parola “diversità” nella sua forma più semplice: nel colore della pelle di alcuni miei compagni. Avevo in classe con me alcuni bambini che venivano dal Marocco. Giocavamo sempre insieme, coloravamo insieme. Sono cresciuta con loro frequentando insieme le scuole elementari e le scuole medie. Ci incontravamo il venerdì dal gelataio nella piazza centrale del mio paese. Ho sempre vissuto la diversità culturale come un ponte, un punto d’incontro.

Per me la diversità e l’uguaglianza viaggiano nella stessa direzione ma d’altronde c’è sempre qualcuno che non rispetta i sensi unici.

Quando penso alla parola “diversità” penso ad un’esperienza che ho avuto modo di vivere grazie alla musica. Ho avuto l’onore (sì perché è stato un onore) di suonare con un gruppo di disabili. Ogni venerdì dalle 18.30 alle 19.30 ci ritrovavamo alla scuola di musica di cui sono ancora allieva e suonavamo le grandi hit del momento. È stata una di quelle esperienze in cui dici grazie alla vita per averti permesso di entrare nel loro mondo. Infatti, con grande disinvoltura e talento da vendere, si esibivano su quel palco senza pensare agli errori di stonatura, alle dimenticanze del testo. Salivano con la voglia di condividere un po’ di loro stessi, con la speranza di sentire tutto il calore del pubblico. Li ho sempre osservati e la cosa più bella che li caratterizza è la loro umiltà. Sì, perché appena ricevono un complimento, diventano rossi, fanno uno di quei sorrisi a 32 denti e cercano di nascondersi per l’imbarazzo.

Loro non si sentono arrivati nella vita, anzi loro comprendono il senso della vita e lo condividono con gli altri con il dono della semplicità e dell’umiltà.

La verità è che mi sono sempre sentita un po’ più “giusta” suonando con loro, avere il privilegio di entrare anche solo per una serata, nella loro vita.

 Per me la diversità è una linea infinita che ho iniziato a tracciare all’asilo e che molto probabilmente finirò di tracciare insieme al mio ultimo respiro.

La diversità è un’arma come la parola, c’è chi la usa bene e ne fa un capolavoro e chi la usa male facendo una strage.

La diversità per me sono due bambini all’asilo che hanno interessi diversi, uno gioca a calcio, uno fa karate ma ogni giorno imparano un po’ delle tecniche dello sport dell’altro. Per me la diversità è una grande tavolata in giardino, preferibilmente a maggio, primi caldi. Un gruppo di venti persone che scherzano, ridono, parlano di come vedono la vita, chi dal basso, chi dall’alto. E alla fine della giornata tornano a casa con qualche punto di vista in più, con la consapevolezza che i passi su cui restiamo possono invece muoversi se accogliamo quelli dell’altro. Insomma, in un mondo che vi vuole normali (che poi, con che criterio si stabilisce ciò che è normale e ciò che non lo è?) e allergici alla diversità, siate bambini che “raccolgono pietre in giardino in un mondo che si uccide per diamanti” (Hopper, Gio Evan)

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