Rileggere David Foster Wallace ventidue anni dopo gli attentati dell’11 settembre

Facciamo un esperimento: prendete il 1° gennaio – di nessun anno in particolare -, scrivete da qualche parte la prima cosa che vi viene in mente pensando a questo giorno, poi passate a quello successivo, ripetete l’esercizio e proseguite così fino al 31 dicembre, dopodiché tornate qui. È assai probabile che, tra la ristrettissima cerchia arrivata alla fine dell’anno senza gettare la spugna, giunto all’11 settembre, ciascuno di voi abbia pensato agli attentati del 2001 – così come è assai probabile che per i restanti giorni dell’anno, festività a parte, siano state date tutte risposte diverse. Curioso, non trovate? In prima battuta si direbbe di no, anzi sembra piuttosto scontato. Eppure è proprio l’ovvietà di questa associazione a renderla in qualche modo speciale. In fondo, in termini di impatto sul nostro quotidiano o di perdita di vite umane, la serie di attentati dell’11 settembre 2001 non è stato né l’unico né il più drammatico evento accaduto in epoca recente. In ordine sparso: il 26 aprile 1986 esplode il quarto reattore della centrale nucleare di Černobyl’; il 30 gennaio 2020 l’OMS dichiara la pandemia di COVID-19 un’emergenza sanitaria globale; il 6 agosto 1945 l’aeronautica militare statunitense sgancia una bomba atomica su Hiroshima e, tre giorni dopo, il 9 agosto, su Nagasaki; nella notte del 6 febbraio 2023 un terremoto in Turchia uccide 60mila persone; venerdì 13 novembre 2015 una serie di attacchi terroristici getta Parigi nel caos; il 24 febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina. Sono pronto a scommettere che solo pochi di voi ricordavano con precisione queste date. L’11 settembre no, invece, l’11 settembre 2001 ce lo ricordiamo tutti, noi occidentali, anche coloro che all’epoca dovevano ancora nascere. Dal 2001, l’11 settembre ha smesso di essere una data ed è diventato qualcos’altro. Una cicatrice nella memoria collettiva. D’accordo, ma perché?

I filmati del secondo aereo che colpisce la torre sud del World Trade Center, una colonna di fumo che si alza sullo skyline di Manhattan, la gente riversa per strada che scappa in una direzione e squadre di pompieri che corrono in quella opposta, puntini neri che si staccano dai piani alti dell’edificio e che poi, quando l’inquadratura si stringe improvvisamente su di loro, si capisce che non sono oggetti ma persone, in giacca e cravatta e gonna, donne e uomini che un attimo prima erano impiegati, camerieri, tecnici delle comunicazioni, genitori, figli, nipoti, mentre adesso sono corpi scomposti che precipitano da un grattacielo, consapevoli che tra un istante si schianteranno al suolo. Queste immagini hanno fatto rapidamente il giro del mondo, l’11 settembre del 2001 ogni televisore in ogni casa di ogni Paese trasmetteva senza sosta il racconto di ciò che stava accadendo a New York. All’indomani degli attentati, i titoli dei giornali dicevano qualcosa come: «Attacco alla democrazia», «America sotto attacco», «ATTACCATI!». Sono giorni in cui si compie la retorica del mondo diviso in due, bene da un lato e male dall’altro, buoni contro cattivi. L’allora Presidente degli Stati Uniti George W. Bush dichiara, prima a parole e poi coi fatti, «guerra al terrore». Successivamente la palla passa agli esperti, ai complottisti, ai cineasti, agli scrittori, l’11 settembre è qualcosa di cui il pubblico sembra andare ghiotto, qualcosa di cui si ha l’impressione che se ne sia parlato abbastanza e al tempo stesso che non tutto sia stato chiarito; vengono realizzati inchieste e documentari – vale la pena ricordare il grandioso Fahrheneit 9/11 di Michael Moore – e perfino romanzi, l’ultimo uscito appena qualche mese fa dalla penna di Alessandro Barbero (Brick For Stone, Sellerio, pp. 352).

E veniamo a David Foster Wallace. Nell’ottobre del 2001, sull’edizione statunitense di Rolling Stone compare un pezzo firmato dall’autore di Infinite Jest: tradotto in italiano come La vista da casa della Sig.ra Thompson, il breve saggio, contenuto nella raccolta Considera l’aragosta (Einaudi, pp. 392), è un racconto intimo e dettagliato dei momenti immediatamente successivi all’attacco alle Torri Gemelle. Compito dello scrittore che vuole realizzare un reportage è quello di assumere un punto di vista particolare, illuminando una porzione di mondo ancora inesplorata: DFW lo fa attraverso un oggetto narrativo non identificato che ci porta dritti dentro la casa di una settantaquattrenne americana qualsiasi di un paesino qualsiasi del Midwest, la mattina dell’11 settembre 2001.

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L’Orrore visto da casa della Sig.ra Thompson

Alle 8:00 di quel martedì, Wallace era sotto la doccia e ascoltava un programma radiofonico sui Chicago Bears, nella sua casa a Bloomington. «Bloomington è una cittadina di sessantacinque mila abitanti nella parte centrale di uno stato che è estremamente, enfaticamente piatto, tanto che i punti più alti della città si vedono da molto lontano». Wallace la descrive come un luogo in tutto e per tutto identico a qualsiasi altra cittadina del Midwest: piena zeppa di chiese, «vicini che tagliano il prato con la stessa frequenza con cui si radono», distese di granturco, inverni di spietata crudeltà, un’insanabile spaccatura sociale simboleggiata dai Suv e dai pick-up. «La gente – scrive Wallace – se ne sta per i fatti suoi. In pratica giocano tutti a softball o a golf e fanno delle grigliate, guardano i figli che giocano a calcio e certe volte vanno al cinema a vedere film commerciali… E guardano una quantità smodata e sconcertante di Tv». La televisione a Bloomington – non solo: anche in Italia, specialmente negli anni passati – rappresenta un vero e proprio fenomeno sociale, ed è l’unica finestra dalla quale queste persone possono affacciarsi sul mondo: va da sé che la realtà è prettamente televisiva. A Bloomington, non possedere una Tv significa essere una presenza fissa nelle abitazioni degli altri, «e questo è particolarmente vero per quelle situazioni di crisi in cui bisogna guardare la Tv».

La casa in cui, con lo shampoo ancora nei capelli, Wallace finisce a guardare il compiersi dell’Orrore – così DFW si riferisce ai fatti dell’11 settembre – è quella della Sig.ra Thompson, vispa settantaquattrenne a capo di una congregazione religiosa e madre di un veterano del Vietnam che non parla mai della guerra, il cui salotto, prototipo della casa operaia di Bloomington, con i doppi vetri e le tendine bianche eccetera, è spesso luogo di ritrovo. Quella mattina Wallace entra direttamente in casa della Sig.ra Thompson, senza suonare il campanello, e la prima immagine che vede sullo schermo del televisore Philips da quaranta pollici, davanti al quale sono assiepate diverse altre signore della chiesa, alcune delle quali ancora in vestaglia, è il faccione del giornalista Dan Rather, in maniche di camicia e con i capelli un po’ scompigliati, che presto lascia il posto ai terribili filmati in diretta da New York. «Sembra grottesco parlare del trauma provato davanti a un video quando la gente dentro quel video stava morendo. Qualcosa in quelle scarpe che cadevano a loro volta peggiorava le cose. Mi sa che le signore più anziane l’hanno presa meglio di me. Poi di nuovo l’abominevole bellezza del filmato del secondo aereo che colpiva la torre, con l’azzurro e l’argento e il nero e l’arancione spettacolare, mentre altri puntini cadevano».

Uno degli effetti collaterali dell’Orrore, sostiene Wallace, è stato il bisogno impellente di chiamare i propri cari per accertarsi che stessero bene, anche se questi non si trovavano a Manhattan. O magari sì, effettivamente si trovano a Manhattan, ma dalla parte opposta rispetto al World Trade Center. Presto diventa chiaro che nessuna delle signore presenti ha la benché minima idea della geografia di New York, se non quella che si sono costruite guardando la Tv: è a questo punto che dentro Wallace comincia a galoppare un senso crescente di disagio, di alienazione da Bloomington, dalle cittadine del Midwest con i prati ipercurati, da queste anziane signore né stupide né ignoranti, semmai innocenti. «Nella stanza c’è quello che colpirebbe molti americani come un’assenza di cinismo». Nessuno, a casa della Sig.ra Thompson, trova strano che tutti e tre i conduttori sono in maniche di camicia, né che forse non è un caso se i capelli di Rather sono così scompigliati. Nessuna delle signore si domanda come mai continuino a trasmettere le stesse terribili immagini dell’Orrore, nessuna di loro sembra notare che alcune delle frasi pronunciate da Bush «sono di una somiglianza quasi plagiaria» a certe battute recitate da Bruce Willis in Attacco al potere, né che la precisione di certe inquadrature ricorda la trama di film come Die Hard o Air Force One. «Nessuna – conclude Wallace – è abbastanza scafata da avanzare la scontata e perversa lagnanza postmoderna: Già Visto».

La vista da casa della Sig.ra Thompson, oltre a schizzare un ritratto di quella porzione di America qui rappresentata da Bloomington, è il tentativo di David Foster Wallace di spiegare come buona parte dell’Orrore sia stato per lui scoprire, nei giorni immediatamente successivi all’attacco, che qualsiasi cosa odiassero i dirottatori somigliava molto di più alla ‘sua’ America che non a quella, innocente, della Sig.ra Thompson. Infine penso che questo breve racconto possa aiutarci a rispondere alla nostra domanda: in che modo l’11 settembre ha smesso di essere una data ed è diventato l’Orrore? La portata dell’attentato, i tremila morti, la più grande potenza mondiale messa all’angolo in meno di un’ora, certo, ma c’è anche dell’altro, qualcosa di poco razionale, qualcosa che ha più a che fare con l’interpretazione emotiva, con la percezione della realtà: e forse, la televisione, in tutto questo, ha fatto la sua parte.


Illustrazione di Matteo Galasso

Gabriele Olivo
Direttore editoriale. Sono nato a Torino nel 1997. Laureato in ingegneria aerospaziale, scrivo di scienza, attualità e letteratura per alcune riviste online. Ho frequentato il master in tecniche della narrazione alla Scuola Holden. Coltivo interessi disparati.

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1 Comment

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