Il colosso dell’intrattenimento fagocita la storia della prima avvocata d’Italia, e ovviamente non poteva uscirne nulla di buono.
Dura lex sed lex. È la dura legge di Netflix, tesoro. Non si contano le occasioni sprecate dalla piattaforma che fa del suo algoritmo un vanto non esattamente giustificato, vista la maggior parte dei risultati recenti. La Legge di Lidia Poët è solamente l’ultimo degli esperimenti pop che hanno fatto della storia la loro povera cavia. Il personaggio storico sotto la lente d’ingrandimento è di quelli importanti. Lidia Poët, primo avvocato donna d’Italia, dopo aver conseguito la laurea nel 1881, viene ammessa all’esercizio dell’avvocatura due anni più tardi. Con un materiale del genere era lecito aspettarsi una serie che approfondisse maggiormente i temi sociali dell’epoca. La donna all’interno di una società bigotta e misogina, al punto da considerare l’avvocatura come esclusiva maschile per non gettare discredito sulla professione. E invece…
La miniserie
La miniserie si divide in sei episodi girati con lo stampo, senza mai soffermarsi troppo sugli aspetti legati al tribunale e le sue controversie sociali. Da aspirante avvocato, la nostra eroina si trasforma presto in una sorta di pseudo Sherlock Holmes dei poveri. Si spende alla ricerca di prove per risolvere quei casi tragicomici che dovrebbero rappresentare il fulcro di una sceneggiatura stanca ancor prima di partire.
Il vuoto circostanziale che si viene a creare fra le pieghe della trama è inflazionato da una scrittura che francamente poteva spendersi di più, invece di soggiogare gli attori legando il talento di alcuni (e si contano su tre dita) alla pesante ancora di dialoghi fini a se stessi, intermezzi narrativi che nulla aggiungono al contesto di fondo, e banalità espressive degne di un qualunquismo esasperante in salsa teen drama. A essere sinceri, non si può certo dire che non ci fosse il budget per valorizzare l’assetto narrativo della serie, visti gli eccellenti costumi che ben si sposano con una scenografia di tutto rispetto, per non parlare della fotografia, capace di dipingere il capoluogo piemontese in tutta la sua magnificenza barocca senza colpo ferire. Queste incongruenze dissigillano ulteriormente uno squilibrio tra arte e tecnica, sinonimo di una preoccupante confusione di fondo.
Si palesa dunque una deprivazione artistica di cui avremmo fatto volentieri a meno, considerando la rilevanza socio-politica di un personaggio come Lidia Poët, a cui non sarebbe decisamente piaciuta questa declinazione del suo personaggio nelle vesti di una signora in giallo sabauda.
Tra prove attoriali eufemisticamente discutibili (no, neanche la bravissima Matilda De Angelis si salva) e strizzate d’occhio a un pubblico tutto fuorché esigente, rimane l’amaro in bocca per l’ennesimo buco nell’acqua, fomentando gli ormai giustificati pregiudizi sui recenti prodotti seriali del belpaese.
Tirando le somme, La Legge di Lidia Poët incontrerà sicuramente il gusto di chi si aspetta molto poco dal piccolo schermo, alla ricerca di un prodotto mordi e fuggi dalle scarse pretese artistiche, gettando al vento un racconto storico meritevole di tutt’altra fattura. Lidia perdonali, non sanno quello che fanno.