Una pagina importante della storia italiana che non è mai stata affrontata e accettata del tutto. Il colonialismo novecentesco, il “grande rimosso”, esaminato da diverse prospettive, quelle degli ospiti presenti. Igiaba Sceba, scrittrice italiana di origine somala, Driant Zeneli, artista albanese che ha vissuto per molti anni in Italia e Carlo Lucarelli, scrittore e conduttore televisivo sposato con una donna eritrea.
Le trasformazioni del linguaggio
L’autrice romana al Salone del Libro 2023 ha presentato il suo ultimo lavoro “Cassandra a Mogadiscio”. Si tratta di una lettera scritta alla nipote, nata e attualmente residente in Canada. In un primo momento si concentra sulla lingua italiana, e su come essa abbia assunto un significato differente nelle varie generazioni. Da strumento di sottomissione è diventato mezzo per conoscere le proprie radici, in riferimento alla volontà della nipote di apprenderla.
La scrittrice è convinta che la nostra lingua si sia risignificata, abbia assunto dei connotati più familiari e sentimentali agli occhi dei coloni e dei loro figli. Si imparava l’italiano a scuola, veniva utilizzato a livello burocratico e permeava la vita quotidiana dei coloni. Sceba racconta un aneddoto a questo proposito, la cui simbolicità è lampante. Una canzone di Pupo riprodotta presso un hotel di Mogadiscio, la quale, in concomitanza con lo spegnimento della luce, rappresentava il momento in cui poter baciare le ragazze.
Gli italiani, invece, non sono ancora riusciti nell’attribuire un significato a quegli anni e a quei momenti. Le nostre città sono costellate da nomi afferenti a quel periodo (cita la fermata Bengasi della metropolitana torinese), ma raramente li si associa a quello che hanno rappresentato. Questo è solo uno degli spunti di riflessione con cui la finalista del Premio Strega si è proposta di far ragionare gli italiani, in merito ai residui di colonialismo che continuano a circondarci e che è necessario vengano ridiscussi.
L’aspetto familiare del colonialismo
L’artista originario di Skhutar racconta a sua volta l’esperienza della sua famiglia con il Fascismo e il colonialismo italiano. Anche in questo caso l’accento viene posto sulla lingua e su come sia stata inculcata nelle menti dei giovani grazie al sistema scolastico, che ha anche rappresentato l’unica via di alfabetizzazione per le donne di quella generazione. La nonna, infatti, continuava a cantare a distanza di anni “Giovinezza”, e non smetteva di rammendare le professoresse italiane che le avevano insegnato a leggere e a scrivere.
In un secondo aneddoto Zeneli esprime ancora di più la difficoltà nella distinzione fra bene e male, concentrandosi questa volta su un amico italiano. Egli voleva documentare la brutalità dei compatrioti nelle colonie, ma si imbattè in una novantenne albanese il cui primo ricordo di quel periodo era legato a un italiano che l’affascinava.
Questi esempi, insieme al fatto che molti nostri compaesani siano rimasti in Albania e vi si siano stabiliti alla fine della dominazione, testimoniano come casi particolari possano impedire di comprendere del tutto il quadro generale. Nonostante lo sfruttamento economico e la sottomissione politica, infatti, molti albanesi avevano conservato e conservano un ricordo positivo degli ex colonizzatori.
Un mito da sfatare
Carlo Lucarelli con il suo giallo “Bell’abissina” riprende la figura del Commissario Marino, e lo sfrutta nuovamente per raccontare un frammento della storia coloniale. Fra il ’93 e il 2022, anni di pubblicazione dei due volumi legati alla sua figura, l’autore ritiene che l’Italia non abbia fatto i conti con il “grande rimosso”. Si continua a tramandare il mito degli “italiani brava gente”, in riferimento all’erronea convinzione di una minor violenza perpetrata nei confronti dei coloni. Lo dimostrano gli ancora numerosi nomi di colonie, battaglie ed esploratori presenti nella nostra vita. Lucarelli cita Piazza Bottego, in cui visse per anni ma al cui nome seppe dare un significato solo dopo una ricerca personale svolta in età adulta.
Questo romanzo investigativo rappresenta il tentativo di focalizzare l’attenzione del lettore su ulteriori aspetti di quel periodo, appresi dall’autore nel corso degli anni. A questo proposito cita il Regio Decreto del 1937. Esso stabiliva una pena detentiva per un italiano che aveva rapporti coniugali con un suddito coloniale o a esso assimilabile. L’aver sposato una donna eritrea non può che aver acuito questa sua volontà. Raccontare la storia sfruttando il mezzo letterario e il genere che più l’ha reso famoso.
La protagonista, inoltre, quando si sente indirizzato il canto “Faccetta Nera”, lo considera come un’esaltazione delle sue capacità e della sua intraprendenza, e non un indicatore di diversità. Questo a rimarcare la sua sicurezza contrapposta all’ambiguità degli italiani.
Tiriamo le somme
Sul tema principale della giornata, ossia l’incapacità nell’assumersi le responsabilità degli eventi coloniali, Scego afferma che è proprio la presunzione d’innocenza il problema. “Innocence was a crime” citando lo scrittore statunitense James Baldwin. Ultimamente la situazione è migliorata grazie alla presenza di autori e artisti provenienti dai Paesi colonizzati, che hanno portato il loro punto di vista della Storia. Quello che ancora manca è il racconto degli italiani, limitato a sporadiche opere.
In chiusura Zeneri proietta il suo ultimo progetto, un filmato ispirato alla favola medievale “La lucciola e il serpente”. In questo caso l’artista mantiene il carattere crudo dell’originale, ma aggiunge un elemento conclusivo. Il serpente, dopo aver detto alla lucciola di volerla mangiare perché brillava, prende fuoco. L’insetto sentenzia in questo modo l’evento: << Ora puoi brillare anche tu >>. L’obiettivo è quello di rappresentare in maniera figurata una nuova forma di colonialismo, basato su una sottomissione più subdola ma ugualmente vincolante e opprimente.
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