Proposto tra gli eventi speciali del TUC per i 25 anni dall’uscita, Blackout, all’epoca maltrattato dalla distribuzione italiana, rappresenta un’allucinante anomalia nella filmografia del regista italo-americano. Matty, un divo del cinema sulla cresta dell’onda, assuefatto da alcool e droghe, intraprende una folle corsa verso l’autodistruzione. Un film anarchico e anti-narrativo che spiazza per il modo d’infiltrarsi nei miasmi della tossicodipendenza.
Fear City
Abel Ferrara è sempre stato un grande osservatore delle metropoli. Le città sono spesso al centro dei suoi lavori e soprattutto temprano, forgiano e cambiano i personaggi delle sue storie. Si pensi a New York, ai suoi ghetti e ai suoi night-clubs, ossessione che ritorna in tutta la sua opera. Oppure al ritratto delle Vele di Scampia in Napoli-Napoli-Napoli: alveari che crescono inquilini destinati a modificarne la struttura a loro volta. È interessante che Blackout abbia per titolo un termine così ‘panoramico’, il quale rimanda all’immagine di edifici acidamente illuminati e all’improvviso calati nelle tenebre. Ciò stupisce ancora di più per il fatto che sia interamente incentrato sul corpo del suo protagonista. La cinepresa studia le membrane della fittizia star di Hollywood, interpretata da un memorabile Matthew Modine, come addentrandosi in un quartiere sconosciuto.
Qui gli scorci suburbani perdono la loro pregnante presenza. L’architettura smette di agire come una fantasmatica entità plasma individui, rimpiazzata dall’ingombrante ego dell’attore votato al disfacimento. È lui a modificare radicalmente l’esistenza delle persone intorno sé, ad avvicinarle o allontanarle, con le sue azioni degeneri e i suoi raptus di violenza. In questo senso, quello di Modine è un personaggio estremamente attivo, eppure per tutto il film pare bloccato, immobilizzato. Ferrara sembra sondare un uomo in completo stato di paralisi. C’è un continuo rimando all’iconografia dell’oceano, spesso il mare occupa l’intero quadro e, anche quando non è in campo, se ne avverte il suono. L’acqua sembra scorrere all’interno della testa di Matty, proprio come le sostanze fluiscono all’interno del suo corpo. L’orizzonte stesso, il punto dove flutti e cielo si separano, è ripreso con un teleobbiettivo che uccide qualsiasi sensazione di apertura.
Ferrara: nuove frontiere della tossicodipendenza
La piattezza che la lente conferisce all’immagine relega il paesaggio a ‘sfondo’, circoscrivendolo e delimitandolo in maniera annichilente. Non è un panorama marittimo quello che si osserva, ma il confine di una pozzanghera o di un acquitrino. Tutto si muove in un piccolo pezzo di mondo, avviluppandosi su se stesso, ristagnando insistentemente nei torbidi paesaggi cerebrali dell’interprete: spostarsi davvero non è contemplato. Si tratta di un cortocircuito dove si scorgono le tappe di un viaggio al termine della dissociazione.
L’oscuramento, il fade to black del titolo segnala anche l’interruzione delle comunicazioni, l’imprevista impossibilità di poter interagire. Come Matty iperstimolato dagli stupefacenti, coi canali neuronali intasati dalla cocaina, non riesce più a metabolizzare ciò che gli accade nel quotidiano, così il videoartista interpretato dall’assurdo Dennis Hopper, circondato da schermi e videocamere, proclama a gran voce «Video is the future!». Hopper preannuncia una saturazione dell’immagine e del potenziale di diffusione dell’informazione che paradossalmente – oggi ne siamo testimoni – porterà alla dispersione e al depauperamento della stessa. Il personaggio di Hopper, a parte ricoprire un ruolo inconsapevolmente profetico, amplifica a dismisura l’immagine di Matty, proiettandolo su innumerevoli monitor. Nel vedere l’immagine del divo replicato digitalmente in innumerevoli copie, ne emergono lo smisurato egoismo e la frammentarietà e precarietà d’animo assieme. D’altronde, le telecamere di Hopper, come la macchina da presa di Ferrara, stanno sottoponendo Modine a un’attenta e minuziosa vivisezione.
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