«Oggi siamo soli insieme, circondati da un gran numero di individui, ma isolati dalla mancanza di autentica connessione». La vita umana, sostiene il filosofo Byung-Chul Han, soffre oggi la grande accelerazione, le circostanze che hanno determinato la formazione d’una società del rendimento e dell’iperconnessione. La sovrabbondanza di connessioni superficiali e la pressione di essere sempre connessi possono in realtà portare a un senso di solitudine e isolamento, nonostante la presenza costante di altre persone tramite i social media e le comunicazioni digitali. L’amore, che per lungo tempo abbiamo trattato come mito assoluto e garante di salvezza, non sembra bastare per far fronte a questa mancanza di connessione di cui soffre il nostro secolo. Rischiamo di rimanere ancora isolati nella solitudine e di mancare l’appuntamento con l’Altro, rischiamo di sedurre, conquistare e dominare. Anche all’amore, dunque, è richiesto un passaggio ulteriore. Perché questo passaggio avvenga, dobbiamo affrontare la sfida dell’intimità, ma prima ancora dobbiamo ritrovare la nostra poesia. Così, un film viene in nostro soccorso: Paterson di Jim Jarmusch. Jarmusch voleva fare un film sul valore della poesia. In quasi tutta la sua produzione cinematografica, ci imbattiamo in echi di poesia: citazioni, rimandi, momenti di stasi, in cui i personaggi decantano versi; ma mai prima di questo film, la poesia era stata messa al centro della storia. E verrebbe da dire che la storia di Paterson è tutta incentrata sul suo quaderno. Nel mettere in scena la vita ordinaria d’un poeta, che guida autobus e porta il cane a passeggio, Jarmusch ci racconta anche qualcos’altro: una possibilità che ci chiama tutti ad avere coraggio, perché ha il carattere di una sfida.
Abbaiare poesie
Roger Caras era un fotografo a cui piaceva stare in mezzo agli animali, in particolare ai cani. Oltre alle fotografie, c’è un suo pensiero rimasto celebre: «I cani non sono tutto nella vita, ma riempiono le nostre esistenze». Chissà se sarebbe d’accordo Paterson, poeta e conducente di autobus, il protagonista del film di Jarmusch. Paterson vive con la compagna Laura un’esistenza ordinaria nella città di Paterson (non è uno scherzo, si trova in New Jersey): lui lavora, lei sogna di sfondare come artista, e hanno un cane, un piccolo bulldog di nome Marvin. Lo ha voluto Laura, ma tocca al poeta portarlo fuori per le passeggiate e i bisogni. Durante la sera, Paterson ama concedersi una birra al bar, dove Marvin non può entrare. In questa circostanza Paterson non si fa problemi a legare il guinzaglio attorno a un palo e lasciarlo fuori da solo nonostante i mugugni. Il cane svolge un ruolo fondamentale. Non rappresenta soltanto un’abitudine imposta, né una delle dimensioni del conflitto di coppia che esiste, ma che rimane sempre sotteso e inesploso nel corso della pellicola. Marvin farà anche sprofondare il protagonista nel suo punto di morte.
È come se Jarmusch avesse preparato nel gesto di Paterson che abbandona Marvin sul ciglio della strada per entrare in un luogo a lui intimo, a cui il cane non può avere accesso, la vendetta che chiunque lascia il proprio animale da solo in casa teme possa compiersi. Un cuscino morsicato, o il divano, la pipì sul tappeto, o peggio il proprio quaderno delle poesie ridotto a brandelli. Ma che cos’è un quaderno di poesie? Potremmo dire che è un oggetto unico, irriproducibile. È il luogo dove il processo poetico accade, e si rinnova continuamente, proprio come è mostrato nel film, dove la ripetizione dei versi, la ricerca di quelli successivi vengono restituiti dalle cancellature e dalle riscritture che si accumulano nel corso del tempo. Una poesia non si dà nella sua interezza quasi mai all’istante dell’intuizione, è un’insieme di intuizioni che convivono e confliggono in un tempo indefinito.
C’è qui molto della visione di un grandissimo poeta americano del secondo novecento, Wallace Stevens, la cui produzione poetica verte intorno alle tematiche della quotidianità e dell’abitudine, e di come la poesia possa elevare l’abitudine a momento di profonda spiritualità. In Wallace Stevens come in Paterson, la poesia è qualcosa di fluido, difficile da confinare e in perenne movimento. Paterson spesso compone poesie davanti a una cascata. Così troviamo, in alcuni versi di Stevens: «E chi ascolta me ne ascolta il canto | monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare | in sillabe d’acqua; come un significato | che si cerchi per ripetizioni, approssimando». Così in Paterson troviamo: «Erano solo parole scritte sull’acqua».
Il valore della poesia sta nella qualità con cui resiste alla ripetizione, nello strappare l’azione dalla ripetitività dell’esperienza per inquadrarla in un’unicità che eleva la vita umana e le cose del mondo. Il film è costruito in una settimana e ogni giorno comincia sempre nello stesso modo. Paterson si alza per andare a lavoro, mentre Laura è ancora cullata dai sogni. Poi è sempre la solita passeggiata che conduce Paterson fino alla stazione degli autobus. Le stesse tratte da percorrere, le stesse persone. Ogni sera è costretto da Laura a portare Marvin fuori, ogni sera si concede il lusso di una birra al bar. Tutte queste cose vanno a comporre la dimensione quantitativa della vita di Paterson. Una vita come tante altre, con un lavoro, una fidanzata e degli amici.
Ma c’è un’abitudine che rompe con il resto. Paterson scrive poesie su un quaderno. Le comincia al mattino, le porta avanti sull’autobus, ci ritorna, le corregge prima di cena, le comincia sull’autobus, le porta avanti nella passeggiata e così via. Per Paterson scrivere poesie è un’abitudine, ma non come portare Marvin a passeggio. È un’abitudine che si rinnova sempre, una sequenza di gesti e istanti che cercano di fissare qualcosa nel suo spazio interiore, rappresentato fisicamente da quel quaderno. Così, è facile che una scatola di fiammiferi possa trasformarsi in poesia:
We have plenty of matches in our house
Love Poem
We keep them on hand always
Currently our favorite brand
Is Ohio Blue Tip
Though we used to prefer Diamond Brand
That was before we discovered
Ohio Blue Tip matches
They are excellently packaged
Sturdy little boxes
With dark and light blue and white labels
With words lettered
In the shape of a megaphone
As if to say even louder to the world
Here is the most beautiful match in the world
It’s one-and-a-half-inch soft pine stem
Capped by a grainy dark purple head
So sober and furious and stubbornly ready
To burst into flame
Lighting, perhaps the cigarette of the woman you
love
For the first time
And it was never really the same after that
All this will give you
That is what you gave me
I become the cigarette and you the match,
Or I the match and you the cigarette
Blazing with kisses that smolder towards
heaven.
Tutte le poesie presenti nel film appartengono alla produzione poetica di Roy Padgett, poeta della seconda generazione della New York School. Il contrasto tra quantità e qualità si esprime chiaramente in questi versi. Love Poem inizia con «we have plenty of matches», siamo pieni di fiammiferi, la dimensione quantitativa, «we keep them on hands always» e con il ruolo dell’abitudine. Segue la descrizione fisica dell’oggetto a cui il poeta affianca la descrizione del suo immaginario relativo, la scritta gli sembra avere la forma di un megafono pronto a gridare «Here is the most beautiful match in the world» e così la qualità fa breccia nella ripetizione, apre uno squarcio sul reale che si trasforma in spazio interiore. In poche parole: offre una resistenza alla ripetitività. «Lighting, perhaps the cigarette of the woman you love / For the first time /And it was never really the same after that».
Chi si ricorda della prima volta in cui ha acceso la sigaretta della persona amata? Che cosa significa «I become the cigarette and you the match | Or I the match and you the cigarette», se non ciò che François Jullien, nel suo saggio Sull’intimità esprime in questi termini: «Ciò che si fa gesto intimo, anche se divenuto familiare, non è mai abitudinario; conserva sempre qualcosa dell’evento inaudito, del miracolo». Ciascuno di noi, anche senza rendersene conto, sottrae dalla ripetitività qualcosa di singolare. È uno spazio che ci teniamo ben stretto, nascosto e che difficilmente riveliamo al mondo. Potremmo chiamarlo anche ‘mondo interiore’. Quando ci mettiamo in ascolto del mondo e lo guardiamo, stiamo compiendo un gesto che ha a che fare con la poesia perché fornisce le coordinate di questo spazio interiore.
Ma dov’è che l’interiore diventa intimo, se non proprio quando, paradossalmente, lo esponiamo poi al di fuori? «Scopro che non posso essere intimo da solo. Sono necessariamente intimo con: posso essere intimo solo attraverso un “tu”. È indispensabile il richiamo di un fuori» significa che ciò che c’è di più interno dentro di noi aspira ad abbandonarsi all’esterno per spezzare ogni confine che li delimita.
Ed è proprio alla luce dell’importanza dell’intimità come esperienza che si fa con l’Altro, di questa possibile apertura dell’essere singolare all’alterità del mondo, di questo squarcio nella cupa notte degli esseri che non si vedono né si toccano, che il film di Jim Jarmusch andrebbe rivisto. Non solo per come riesca a esplorare la dimensione individuale dell’interiorità di un poeta. Ma soprattutto perché mette in scena quest’altra dimensione. Dell’interiore che aspirando all’esteriore si fa gesto intimo. E quindi forse occorrerebbe correggere quanto detto sopra. La storia di Paterson non è tutta nel quaderno delle poesie. C’è ancora qualcos’altro.
Molti la chiamano pioggia
Uno degli aspetti più controversi del film è la relazione tra Paterson e Laura. È in dubbio che si amino, ma ci si domanda se Paterson e Laura vivano in intimità oppure no. Il primo si accontenta della sua esistenza anonima, l’altra deve assolutamente sfondare nel mondo dell’arte fino a convincersi che il suo futuro starà nel suonare la chitarra e diventare una star di musica country. Paterson di solito accenna un sorriso sincero, anche se è lui che deve pagare gli sfizi della fidanzata. Trova il modo di esporre la sua intimità nel gesto di lettura delle poesie, che è pronto a condividere solo con lei, perché la ama. E Laura ama le poesie di Paterson. Vorrebbe che lui le pubblicasse, che si esponesse al mondo; in altre parole, che assomigliasse un po’ di più a lei. Paterson non è sicuro, preferisce mantenere l’anonimato, e quando sembra che Laura sia riuscita a convincerlo, arriva Marvin con la sua vendetta.
Un aspetto che dobbiamo avere in mente quando parliamo d’intimità è che non per forza questa si lega all’amore. Possiamo amare qualcuno, ma non entrare mai in intimità con esso. In amore si dice «io ti amo» e si presuppone un soggetto e un oggetto ben distinti, mentre nell’intimità non si seduce né si conquista. Ciò che si produce è un ‘tra’ due soggetti che non hanno bisogno di affermarsi. Quel ‘tra’ di noi è un’apertura da cui sorge il mondo, non solo per essere visto o ascoltato, ma anche per essere condiviso. In quello spazio possiamo fare esperienza dell’Altro nella sua alterità, ma anche esperienza del nostro sé nel rapporto con quell’alterità. Così scrive Jullien: «Ci si può guardare mentre si guarda. […] E allora lo sguardo dà; accoglie e si dà; scorre come acqua, e non ha motivo di fermarsi»
Non è con Laura né con lo spietato Marvin che Paterson riesce a entrare in intimità. Eppure, vive tre incontri che lo portano ad affacciarsi a questa dimensione e hanno tutti a che fare con l’acqua e con la poesia.
IntimaMente
Il primo avviene di sera, durante una passeggiata con Marvin. Paterson si imbatte in un rapper che si sta esercitando all’interno di una lavanderia a gettoni. Mentre il liquido delle lavatrici vortica producendo una base sonora, il rapper canta alcune delle sue rime senza sapere di essere spiato. In questa scena, Paterson e il rapper sembrano mancare l’appuntamento con l’intimità perché, anche quando quest’ultimo s’accorge della presenza altrui, il loro scambio non genera una condivisione. Paterson si limita a un complimento, anche se vorrebbe dire di più. Forse vede qualcosa di simile alla poesia nel gesto canoro del rapper, ma non potrebbe mai fermarsi ad ascoltarlo ancora.
Ecco un aspetto centrale dell’intimità: dobbiamo viverla come una sfida perché è arduo sottrarci dalle nostre solitudini, anche nel momento in cui ci sarebbe l’occasione di condividere. Per creare intimità bisogna avere coraggio, è necessario che la mente sciolga la sua prudenza. «L’intimità è un continuo accostarsi al limite – sottolinea Jullien – fino a dove posso arrivare, con te e contro di te, per far saltare il catenaccio interno del mio io, scardinando la frontiera abituale e farne un dentro condiviso?».
Il secondo incontro del film avviene dopo che Paterson ha gettato lo sguardo su una solitudine. C’è una bambina, seduta da sola sopra un muretto con un quaderno aperto tra le mani. Lui si avvicina preoccupato che la piccola si sia persa. Lei lo rassicura sul fatto che stia aspettando la madre e la sorella, ma diventa poi l’occasione per condividere una passione che hanno in comune: la poesia. La bambina scrive versi sul quaderno e chiede a Paterson se vuole ascoltare ciò che ha scritto. Lui le si siede accanto e ascolta. La poesia recita:
Water falls.
Water falls from bright air.
It falls like hair, falling across a young girl’s shoulders.
Water falls making pools in the asphalt, dirty mirrors with clouds and buildings inside.
It falls on the roof of my house.
It falls on my mother and on my hair.
Most people call it rain.
Water Falls
Molte persone la chiamano pioggia, ma noi non ci faremo ingannare. Water falls è la poesia, sono le parole a cadere. Ancora una volta viene usata una metafora fluida che lascia piacevolmente stupito Paterson tanto che gliela sentiremo ripetere in seguito.
È difficile dire che in questa scena Paterson e la bambina abbiano intrattenuto un rapporto d’intimità, ma è fuori dubbio che si sia aperto uno spazio tra di loro e che da quell’apertura qualcosa sia sorto. Non è impossibile immaginare che se la madre avesse ritardato il suo ritorno i due avrebbero avuto la possibilità di uno scambio ulteriore, né è inimmaginabile che potrebbero ritrovarsi in un ipotetico futuro che il film non mette in scena.
È curioso che Jarmusch scelga una bambina perché l’intimità si lega a un sentimento dell’infanzia. Jullien scrive: «In quale nostalgia ci mette? Ma soprattutto (l’intimità) diventa adulta, o rimane infantile? Ci fa regredire? E se no, a che scelte e responsabilità ci porta? Nell’intimità non sono più di fronte all’altro, ma a fianco – proprio come Paterson che sceglie di sedersi accanto alla bambina – non voglio più conquistarlo, farne di conseguenza l’oggetto del mio desiderio, ma sono felice solo per il fatto di esserne vicino, e allora il mondo è in ordine». Paterson e la bambina non si parlano per dirsi qualcosa o perché hanno qualcosa da dirsi, e proprio per l’una e per l’altra ragione possono scambiarsi il dono di una poesia, «per intrattenere il ‘tra’ dell’intimità. Perciò è una parola che non si secca». Come poesia in sillabe d’acqua.
Il terzo incontro contiene le dimensioni raccontate finora: c’è il panorama di una cascata, un signore giapponese che gli si siede accanto e, naturalmente, la poesia. Paterson è seduto su una panchina dopo che Marvin gli ha strappato il suo quaderno di poesie. È un poeta senza versi, che ha visto sbriciolarsi il suo mondo interiore da un cane che non vorrebbe nemmeno avere. Eppure c’è comunque qualcosa di calmo nel gesto di Paterson di stare davanti alla cascata: la poesia sembra averlo abbandonato, ma è solo un’illusione. E infatti una delle prime domande che lo sconosciuto giapponese gli rivolge è se sia anche lui un poeta. «No, non lo sono, io guido gli autobus», risponde. «Questo è molto poetico, potrebbe essere una poesia di Williams Carlos Williams», controbatte lo sconosciuto.
Paterson e lo sconosciuto si scambiano pareri sulla poesia, sulla città di Paterson che ha ospitato grandi poeti del passato come Allen Ginsberg e anche del fatto che l’arte più in generale possa nascondersi in chiunque di noi: come Jean Dubuffet, pittore e scultore francese che lavorava come meteorologo sulla torre Eiffel. Immaginate due uomini di fronte al paesaggio di una cascata, l’uno a fianco all’altro. Tra di loro si produce un campo di contemplazione «perché tutto cambia quando si guarda in due». Ed è allora che il miracolo può avvenire: lo sconosciuto sceglie di regalare a Paterson un nuovo quaderno su cui verrà scritta l’ultima poesia del film. È un dono disinteressato che lo cambierà per sempre perché lo spingerà a tornare a scrivere.
«La parola dell’intimità» conclude Jullien «poiché non ha veramente che dire, non ha nient’altro da dire che l’intimità stessa». Ma in questo Jim Jarmusch, forse, è riuscito a spingersi più avanti: la parola dell’intimità è la poesia. La poesia come sguardo, come ascolto, come un continuo ripetersi di atomi fluttuanti e atti di coraggio, non come un essere, ma come due esseri a tu per tu e il mondo che sorge, complesso e risolto al tempo stesso. Entrambe patiscono sotto il peso di un’epoca che alimenta la solitudine e relega la poesia a mero passatempo o a una pratica del passato. Viviamo di cose virali, ci ammassiamo davanti a una vetrina per delle scarpe o per un’offerta del McDonald. Alimentiamo la solitudine con i nostri prolungamenti digitali che vengono bombardati di prodotti, immagini e di notizie a cui rimaniamo passivi. Alla noia che scaturisce dalla ripetizione di vite che ci appaiono mediocri preferiamo opporre il consumo cieco piuttosto che un’azione disinteressata e intima. Ma una poesia non potrà mai essere consumata e una vita umana non sarà mai mediocre finché manterrà dentro di sé la possibilità di intrattenere un’intimità futura. Perché chi fa esperienza dell’intimità, apre una breccia nell’indifferenza del mondo e si mette a fianco dell’Altro, difendendo il suo e il proprio mistero. ♦︎
Moth è un collettivo di artisti nato a Torino nella primavera del 2023 ispirato alla poetica della falena. Attraverso la produzione artistica e l’organizzazione di eventi, Moth si pone l’intento di riportare l’arte e la bellezza a una dimensione quotidiana.