L’uscita a sorpresa del quarto album de i cani segna il ritorno sulla scena indie di Niccolò Contessa. Tra echi a Heidegger, Kafka e Mann, l’artista romano ci consegna un nuovo ritratto generazionale e ci porta dentro al «buco nero» del vivere contemporaneo.
L’indie non è morto. Ma nemmeno risorto: non è mai andato via. Per accorgersene è bastato osservare le reazioni del web negli ultimi giorni, da quando nella mattina di giovedì 10 aprile la 42 records ha postato sulla sua pagina ufficiale la notizia dell’uscita di post mortem, il quarto album de i cani, il progetto musicale realizzato da Niccolò Contessa.
Dopo Aurora, pubblicato nel 2016, l’artista romano aveva tenuto fede alla promessa fatta nell’ultima traccia del cd, ed eccetto i progetti con Tutti Fenomeni e il brano in collaborazione con i Baustelle, era nuovamente scivolato nell’ombra. Ma la sua musica no.
Nata dalla nicchia indie prima che ‘indie’ diventasse una parola impronunciabile, la musica di Contessa aveva fin dagli albori suscitato grande interesse: era il 2010 e nei suoi testi era riuscito a racchiudere tutti i clichés della gioventù romana e non, plasmando insieme a un nuovo immaginario anche tutti i suoi limiti, dalla critica all’istituzione della coppia borghese in Le coppie, ai cataloghi di nuovi archetipi contemporanei racchiusi in Door Selection o Velleità, all’uso di psicofarmaci per calmare l’ansia, una costante generazionale, in Lexotan. In questi dieci anni di assenza dalle scene, mentre la community di ascoltatori è diventata sempre più grande, anche solo grazie al passaparola social, gli stream hanno continuato ad aumentare. E mentre le canzoni di Contessa sono rimaste le uniche fedeli, nel mare magnum di copie, alle dichiarazioni programmatiche dell’indie più puro, tra sperimentalismo e nuove sonorità, sono soprattutto i suoi testi ad essere diventati da semplice emblema della cultura indie lo stendardo condiviso di una vera e propria controcultura zillennial. «Non se lo aspettava nessuno. Lo stavamo aspettando tutti», scrive la 42 records nell’annuncio ufficiale. Non stupisce perciò che gli appassionati avessero già notato la sera di mercoledì un segnale su spotify nel passaggio dal maiuscolo al minuscolo nel moniker dell’artista romano: ‘i cani’ non sono più ‘I Cani’: si sono adattati anche loro allo script a cui la gen Z è tanto affezionata. Un dettaglio all’apparenza irrilevante, ma forse fondamentale per indicarci che qualcosa, nel progetto musicale di Contessa, nato nel 2010 nella cameretta di Roma 2, è cambiato. Dalla pubblicazione dei primi brani sulla piattaforma SoundCloud, a oggi, infatti, l’artista, così come il suo pubblico, non sono più gli stessi: è cambiata l’età anagrafica, la società, internet. A restare immutato tuttavia, è un dato essenziale che da Il sorprendente album d’esordio de I Cani a post mortem permane: la consapevolezza storica del momento che stiamo vivendo, che Contessa, come tutti i grandi osservatori della propria contemporaneità, è riuscito a intercettare nuovamente, creando un nuovo immaginario fitto di temi in cui è possibile riconoscersi, dalla critica all’omologazione in f.c.f.t. e nella parte del mondo in cui sono nato, fino a canzoni dal sapore esistenzialista come davos o felice. Ancora una volta, a creare il senso di appartenenza a questo momento culturale sono delle tematiche costanti: il senso di vuoto, la critica all’idea di ‘fine della storia’, e l’assurdo pronto a rivelarsi all’improvviso per mostrarci cosa c’è dietro al «buco nero». post mortem, che nell’album corrisponde a una traccia strumentale che ricorda le atmosfere lynchiane di Angelo Badalamenti, è un monito a ciò che resta dopo il silenzio. E più che al silenzio degli ultimi anni, con post mortem, Contessa si riferisce all’eredità postuma dell’indie: un testamento a ciò che è stato e a ciò che può ancora essere.
«L’adulto medio è disperato / depresso funzionale / terrorizzato»
Da Wes Anderson a Piero Manzoni, fino a David Foster Wallace: i testi di Contessa sono da sempre popolati di sottili rimandi culturali. In post mortem, i riferimenti non mancano e si orientano questa volta verso una sensibilità più esistenzialista: l’accento cade sull’isolamento dell’io («un cubo di Rubik senza colore»), sulla sua fragilità («per chi ha paura del buio / c’è poco amore nel mondo»), sull’inquietudine di chi si misura con l’assurdità del vivere («e ci consuma il fuoco lento / come legno che diventa carbone»). Se la riflessione sulla solitudine dell’uomo di fronte al mondo è sempre stata la cifra stilistica con cui Contessa ha raccontato il senso di vuoto, già a partire dal primo album, dove la realtà veniva ciclicamente incrinata da improvvise prese di coscienza (come in Door Selection, in fila per un locale, con «la pretesa che tutto questo avrà un senso»), allora post mortem non fa che portare quello sguardo alle estreme conseguenze. In buco nero, la lacerazione, l’attacco di panico, si manifesta all’improvviso («forse si è reso conto / di cosa c’è davvero / gli è venuto un pensiero / è finito / nel buco nero»). Ed è proprio il «buco nero» il leitmotiv esistenzialista dell’album: «Non parlare della morte se c’è gente a cena», dice in un verso della canzone, ed è lì che avviene l’ennesimo squarcio, che riprende i toni più cupi già presenti in Aurora, e indica una rottura nel modo di percepire il mondo. La critica è sempre la stessa: gli strali di Contessa sono scagliati contro la società dei ‘si dice’, ‘si fa’, che ci educa a fingere di non avere paura. Il monito a riportare «le filosofie in cantina / con le religioni e la Play Station 2», di Non finirà, brano di Aurora in cui critica l’idea contemporanea di ‘fine della storia’, si rimodula in post mortem nel brano nella parte del mondo in cui sono nato, in cui «tutto è già stato fatto, tutto è già stato creato»: avere la propria filosofia è quindi necessario requisito per andare avanti. In questo senso, il «buco nero» può essere anche simbolo del Dasein, l’Esserci, il concetto chiave di Heidegger, il padre dell’esistenzialismo novecentesco: il paradosso di vivere accanto agli altri mentre si è in fondo sempre soli con se stessi.
«Perché com’eri ieri / così non sarai più domani»
Il senso di transitorietà percorre l’album anche nel sound, che sperimenta sonorità dall’indietronica al synth pop, affinate da Andrea Suriani. In io, la prima traccia dell’album, è presente un segmento iniziale con una voce russa: una donna che consola un uomo dicendogli di calmarsi. Su un sound che mescola l’acustico a un sussurrato che ricorda Eliott Smith, è costruita una canzone che sembra inizialmente uno sfogo contro i detrattori(«chi mi ha dato una spinta / chi mi ha fatto cadere?»), ma che si rivela in realtà un outburst contro se stesso: «chi promette che cambia e poi resta lo stesso?». Non solo Heidegger ma anche Kafka e Mann fanno la loro comparsa nei rimandi interni di post mortem. Nel brano felice, l’evocazione alla compagna di Kafka, Felice (letto /Fe’lis/, andando a costituire peraltro un gioco di parole col titolo della canzone) Bauer , a cui sono dedicate anche le Lettere a Felice, sembra sostituire la Vera Nabokov del brano di Glamour. In un catalogo di similitudini dal tono aspro, («come un cane chiuso in casa che guaisce / e crede di essere in punizione») la felicità è paragonata anche a Gregor Samsa, l’evocativo protagonista de La Metamorfosi. Non c’è spazio per sentimenti assoluti (lo suggerisce già il ritornello, con quel «credo di essere felice» detto quasi sottovoce). Non a caso, tra le immagini evocate compare anche, trascinato dalle pagine di Thomas Mann dentro la canzone di Contessa, Hanno Buddenbrook: figura schiva, tormentata, profondamente legata alla musica, inadatta al mondo borghese del padre, e costretto a una morte prematura. In davos il richiamo all’universo di Mann sarà ancora più evidente: la canzone infatti contiene nella seconda strofa continui rimandi a La montagna incantata (Davos è infatti la località in Svizzera in cui si trova il sanatorio per i malati di tubercolosi dove è ricoverato Hans Castorp). Così come nel romanzo Davos diventa uno spazio sospeso, fuori dal tempo, dove la vita e la morte si confondono, anche nella canzone l’atmosfera è rarefatta. I rimandi iniziali («qualcuno gira di porta in porta e vende Lotta Comunista», «qualcuno in after la domenica») evocano un mondo in cui i personaggi si muovono come sonnambuli, inconsapevoli ma intrisi di un senso di colpa latente. Contessa descrive quindi una condizione esistenziale, non morale, la stessa che Kafka mette in scena ne Il processo: una condanna senza spiegazione. E come Josef K., anche Contessa in colpevole sembra portare addosso una vergogna che sopravvive a tutto e e lo condanna a sentirsi, come nella celebre chiusa finale del romanzo kafkiano, «come un cane».
«Tutto quello che ci vuole / per una canzone»
Assieme a una prosa semplice ma spiazzante, spesso attraversata da un sarcasmo pungente, nell’album si susseguono immagini dal retrogusto dichiaratamente indie, ossia quotidiano: come l’immagine, apparentemente banale, del basilico («sto in fila alla cassa / ho di nuovo scordato il basilico»). A questa quotidianità disillusa si affianca una critica sociale netta («Vivere è fascista, nascere è reato / vivere è capitalista, nascere è peccato») e si fa strada costante la dicotomia artista-mondo, che emerge in versi formulati con il ‘si passivante’ ( «da oggi voglio fare quello che si deve fare» ) come a sottolineare l’automatismo, la rinuncia alla volontà. Accanto a questo, si avverte lo schieramento musicale e culturale dell’autore, che non risparmia una stoccata alla musica commerciale, definita «tormentone estivo da rinnegare». Autoreferenzialità e critica si intrecciano senza soluzione di continuità: «Degli artisti ci interessa essenzialmente / che cos’hanno mangiato, dove vanno in vacanza», oppure: «Quasi tutti i romanzi hanno un protagonista che somiglia all’autore / e non credo sia un caso». La rima, volutamente evitata, segue un andamento libero, spezzato, che privilegia l’andamento del pensiero piuttosto che la forma. Le immagini ritornano, si trasformano, si rincorrono in un loop quasi ipnotico, come certi finali di canzone che sembrano implodere su sé stessi. È lì che si riconferma la predilezione di Contessa per le parole troncate, sospese, lasciate a metà (spesso infatti, i finali delle canzoni si interrompono, come ad esempio in nell’ultimo verso spezzato di madre: «ogni volta la prima vol–»). E forse in post mortem, Contessa vuole fare proprio questo: illuminare brevemente il pubblico, non per spiegare la luce, ma per farci vedere meglio il buio. L’album è stato accolto con una strana forma di riconoscenza malinconica: perché in fondo, ci siamo visti. Anche solo per un attimo. ♦︎