Rita rilesse i numerini sui biglietti spiegazzati più volte, quasi sperando che i posti assegnati sarebbero potuti cambiare, ma continuavano ad essere gli stessi: 9A e 7A, lato finestrino.
«Non siamo vicine», confessò ad Agata.
«Non fa niente»
«Sei tranquilla?»
«Sì»
«Davvero?»
Rita sapeva che Agata aveva paura dell’aereo, era stata la prima confessione che le aveva fatto a uno di quegli stupidi pigiama party in quarta ginnasio. Li facevano ogni sabato, allora, quando i genitori di Rita andavano a teatro mentre loro passavano la serata a guardare vecchie rom-com ingozzandosi di marshmallow e Nutella, rubando qualche sorsata di liquore dal carrello bar di ottone accanto al divano.
Per un attimo, Rita riconobbe sul volto di Agata la stessa espressione di quelle sere, quando temeva che i suoi fossero già dietro la porta. Ma poi la osservò mettere il bagaglio sulla cappelliera e lanciare il telefono sul sedile del 9A, la cover trasparente che lasciava intravedere uno sticker non ancora usato, un biglietto vecchio del tram, una frasetta trovata nei biscotti della fortuna.
«Hai visto dove si sono seduti gli altri?» chiese Rita, per distrarla.
Agata se ne accorse e comunque indugiò a cercare i suoi compagni di classe tra le file più lontane della cabina, ma non riuscì a vedere altro che il suo professore di filosofia, parecchio pallido in volto, cinque file dopo la sua: era ancora in piedi anche lui, e teneva in mano un blister da cui stava tentando di far uscire alcune pastiglie. «Sembra che non sono la sola ad avere paura dell’aereo», disse, con un mezzo sorriso. «Devono essere tutti in fondo» aggiunse poi, prima che due signori inglesi con dei cappellini con la scritta ‘Italia’ e ‘Sicilia’ a caratteri cubitali e multicolor si avvicinassero per prendere posto.
Rita osservò Agata aggiustarsi sul sedile che le aveva assegnato il biglietto che portava il suo nome: Agata Arrighi. Pensò che la sua amica aveva un bel cognome. L’aveva sempre pensato, fin dal primo giorno di scuola, quando durante l’appello quell’adolescente con gli occhiali e i capelli arruffati aveva alzato la mano, e aveva scoperto come si chiamava la sua vicina di banco. Agata le aveva detto che parlava sempre ed era vero, e gli unici momenti in cui Rita si era accorta che non lo faceva coincidevano con i i minuti in cui la sorprendeva a perdersi fuori dall’ampia finestra che dalla sulla via. Rita, dal canto suo si ricordava di essersi scusata per il suo aspetto, come se importasse, e le aveva confidato che non appena avrebbe compiuto diciott’anni si sarebbe rifatta il naso. Aveva aggiunto che se non le andava di essere sua amica si sarebbe spostata di banco. Erano rimaste sedute vicine per tutti i cinque anni a venire.
Anche adesso, su quell’aereo, mentre faceva passare gli ultimi passeggeri e sentiva la cabina diventare sempre più silenziosa, Rita pensava che fosse strano non occupare il posto accanto a lei. Quando si sedette al 7A era incastrata accanto a due ragazzi della III B che continuavano a sbaciucchiarsi, ma nel posto davanti a lei riconobbe una sua compagna. La chiamò, le si accostò all’orecchio dal buco tra i sedili, le sussurrò qualcosa ed ella annuì. Rita fece in tempo a recuperare la sua roba prima che l’hostess la redarguisse, e mentre si alzò le cadde lo sguardo sulla punta delle Stan Smith ancora macchiata di sangue dalla sera prima.
La gita era durata troppo poco, forse perché era l’ultima e non sembrava davvero possibile che l’anno dopo non ce ne sarebbe stata un’altra: nessuna partenza, nessun ritorno. Quando si sedette nel sedile davanti, si accorse che Agata stava riguardando le foto di quei giorni: la visita a Vizzini, i templi di Agrigento, l’escursione nelle grotte. Si chiedeva, una volta che il ricordo vivido fosse svanito, cosa sarebbe rimasto di quei giorni: qualche post nel feed di instagram dei suoi amici, dei file incastrati in una cartella del pc siglata ‘2018’, l’eco di qualche conversazione fatta in bagno? Quei cinque giorni non sarebbero ricapitati mai più. Il senso di fine la pervase così tanto da farle accorgere che non ci aveva mai pensato davvero, prima di quel momento.
Eppure, seduta su quell’aereo il futuro sembrava ancora così lontano: in fondo, avevano ancora un centinaio di giorni alla maturità, e una versione di greco programmata per il lunedì dopo e poco tempo per prepararla ed era certa che questo non le sarebbe mancato affatto.
L’aereo aveva iniziato a rullare. Rita buttò un’occhiata verso il fondo, per vedere se intravedeva Caterina o Sara, ma riuscì a scorgere solo persone molto annoiate che giacevano nei sedili con lo stesso sterile abbandono che avrebbero potuto avere nel salotto di casa propria, prima di guardare la loro serie tv preferita. Ma Agata no, e Rita continuava a osservarla da dietro, per quanto la visuale del posto che aveva scambiato con la sua compagna glielo permettesse.
Quando l’aereo si staccò da terra, la vide stringersi saldamente ai braccioli del sedile e tenere gli occhi puntati fuori dal finestrino. Non era come quando guardava fuori dalla finestra in classe: lì il mondo si muoveva piano sulla terra ferma e la vita sembrava scorrere controllata e docile fuori dalle mura della scuola. Da quella prospettiva, tutto era diverso, eppure Agata non smetteva di guardare. Alcune gocce di pioggia lieve avevano incominciato a sferzare la superficie liscia del vetro e le nuvole avevano assorbito tutti i colori del cielo. Il riflesso di Agata sull’oblò era l’unica immagine visibile: aveva ancora il mento tumefatto, dopo che la sera prima se l’era spaccato.
Quando Caterina e Sara l’avevano chiamata aveva trovato Agata nella camera d’hotel con la fronte premuta contro il vetro dello specchio e un asciugamano sporco di sangue buttato nel lavandino. Indossava ancora il pigiama dei Looney Tunes e aveva in mano due ovetti Kinder. «Scusami», le aveva detto, «non volevo rovinarti la serata». Rita fece per prenderle l’asciugamano, voleva tamponarle il mento che gocciolava ancora. Ma Agata le bloccò il polso: «No», le disse, guardandole il vestito lucido che aveva indossato per l’occasione a cui Agata aveva rifiutato di andare, «non voglio che ti macchi».
Le gocce di pioggia avevano iniziato a schizzare violentemente contro il finestrino e qualche turbolenza scuoteva la fusoliera. Mentre Rita alzava il volume della canzone che avevano cantato così tanto da impararla a memoria chiuse gli occhi. L’aereo continuava a far tremare il sedile e un vuoto d’aria le pervase il petto: per un attimo ci pensò davvero, a come sarebbe stato se non fossero mai atterrate, se un malfunzionamento del radar, un gabbiano nel motore, o un guasto del sistema avessero potuto spezzato per sempre le loro traiettorie.
Una turbolenza più forte. Rita aprì gli occhi: le nocche di Agata erano così strette al sedile da essere tutte bianche.
In quell’istante, Rita allungò una mano oltre lo stretto spazio che separava il finestrino dal sedile di Agata.
«Non preoccuparti», le mormorò.
Agata strinse di rimando la sua mano. Aveva dita piccole e sottili che sembravano pronte a spezzarsi all’improvviso.
Intanto, l’aereo prendeva quota e si alzava sempre di più e le nuvole fuori dal finestrino iniziavano a diradarsi, quando inaspettatamente una saetta squarciò le nuvole grigie sotto di loro, illuminando il cielo. Ma loro gli volavano sopra e il cielo davanti a loro era così sgombro, che si rischiava di potercisi perdere.
In quel momento, il segnale delle cinture di sicurezza si spense e le luci in cabina si accesero. ♦︎