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Ad una settimana dall’uccisione dei due italiani e del loro autista, trova la morte sulla stessa strada anche il magistrato che stava conducendo le indagini

Una strada, la Rutshuru-Goma, e due tragici avvenimenti a distanza di una sola settimana l’uno dall’altro. Non c’è stato neppure il tempo di accogliere la triste notizia dell’uccisione dell’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio, del carabiniere che aveva il compito di proteggerlo, Vittorio Iacovacci, e del loro autista, Mustafa Milambo, avvenuta lunedì 22 febbraio, che subito è giunto il drammatico annuncio della morte del maggiore William Assani, il magistrato che stava indagando proprio sul caso del diplomatico italiano, caduto in un agguato la sera del 2 marzo.

Quattro omicidi sui quali, al momento, risulta arduo fare chiarezza, avvolti dallo spesso manto di oscurità e dal profondo silenzio che caratterizza la zona nella quale sono avvenuti, la rigogliosa foresta del parco nazionale del Virunga, patrimonio Unesco e, un tempo, uno degli ultimi templi dei gorilla di montagna. Ora gli animali non si vedono più, scacciati dal loro territorio dall’uomo, che pare aver trovato tra le lussureggianti fronde il suo habitat ideale. La zona, infatti, è parsa diventare in questi ultimi giorni un luogo maledetto, ma in realtà la violenza e il sangue impregnano questa regione della Repubblica Democratica del Congo, il Nord Kivu, già da lungo tempo, nella, purtroppo, solita indifferenza e inconsapevolezza della maggior parte delle persone.

La foresta si è infatti trasformata da diversi decenni nel covo ideale per innumerevoli bande armate che imperversano sulle strade e sui villaggi limitrofi, combattendosi fra di loro per ottenere il dominio sulle risorse dell’area e saccheggiando quante più ricchezze possibili.

Si stima che siano più di 120 i gruppi armati che operano nella zona del Nord Kivu e in altre regioni calde del Congo, in particolare Ituri, Sud Kivu e Tanganyka (prof. Petocchi, Picchio News del 25/02/21). I principali e meglio organizzati sono le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, originariamente soldati appartenenti all’etnia Hutu, l’Allied Democratic Forces (Adf), creata da ugandesi, i guerrieri Mai Mai, sorta di esercito patriottico. Ma a questi vanno aggiunti numerosi gruppi armati dediti soprattutto al banditismo e combattenti di matrice jihadista, che hanno iniziato ad operare nella zona in tempi più recenti.
I possibili colpevoli delle uccisioni sono dunque innumerevoli e individuare i veri fautori di questo atto in una regione dove la violenza rappresenta, per moltissimi dei suoi abitanti, la quotidianità, risulta difficile e facile allo stesso tempo.
Ancora più arduo pare trovare un movente. Se già l’attacco all’ambasciatore Attanasio poteva farlo supporre, l’omicidio del procuratore che stava indagando sul fatto parrebbe ulteriormente far presagire un intento da parte degli assassini di colpire gli operatori delle missioni umanitarie che stanno agendo in Congo. In particolare pare che l’accanimento sia rivolto principalmente contro il World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni Unite dedita all’assistenza alimentare nel mondo e alla lotta contro la fame, insignita proprio nel 2020 del Premio Nobel per la Pace per il suo sforzo, mai venuto meno neppure in questo anno funestato dalla pandemia. Le ragioni che avrebbero portato i gruppi armati a scagliarsi contro il WFP sono ovviamente tutte da chiarire. Il programma dell’agenzia non prevede solo la lotta contro la fame, ma anche interventi volti a favorire in generale il miglioramento delle condizioni di vita e lo sviluppo delle aree del mondo più povere e maggiormente destabilizzate. Certo questo non gioverebbe alle diverse bande militari che proprio della instabilità delle zone in cui operano e della miseria delle loro popolazioni hanno fatto la loro migliore risorsa per arricchirsi.

Ma le possibili motivazioni per spiegare l’uccisione del diplomatico italiano non si possono esaurire a quanto sopra detto. Non si può, infatti, escludere il mero tentativo di sequestro per ottenere un riscatto finito nel sangue, ovvero l’atto compiuto da uno dei diversi gruppi armati per ottenere risonanza mediatica e suscitare l’interesse internazionale. Come non mancheranno sicuramente gli scambi reciproci di accuse fra l’Onu che pare non aver pianificato doverosamente il viaggio, sottovalutando la pericolosità della zona, il governo di Kinshasa che pare non essere stato avvisato della missione e lo stesso ministero degli esteri italiani, sul quale pende la grave accusa di essere rimasto sordo alle richieste dello stesso Attanasio, il quale giá due anni fa sembrerebbe aver chiesto una scorta maggiore.
Dare risposta a tutti questi quesiti e fare luce sui misteri che si celano tra le intricate vegetazioni del Congo sarà sicuramente compito arduo e il rischio è che l’interesse internazionale che questa vicenda ha improvvisamente acceso sullo stato congolese si spenga altrettanto rapidamente.
Forse non è così severo affermare, infatti, che il Congo sia un Paese abituato a rimanere nell’ombra dell’indifferenza del resto del mondo e di cui la maggior parte delle persone ignora la stessa esistenza. La Repubblica Democratica del Congo è, peraltro, contraddittoria a partire dal nome stesso, considerando che il territorio, chiamato Zaire dal 1971 al 1997, di repubblica e di democratico non ha nulla e mai lo ha avuto.
Il suo governo ha visto, di fatto, il succedersi al potere di dittatori, a partire dalla proclamazione dell’indipendenza dal Belgio nel 1960, passando sotto il governo tirannico del maresciallo-presidente Mobutu, come lui stesso era solito farsi chiamare, per poi arrivare alla proclamazione nel 1997 del generale Kabila quale presidente assoluto, in quello che è stato definito giustamente il modello africano di stato democratico, dove le redini del governo sono rette, in realtà, da despoti che rimangono al potere ben  oltre la scadenza del loro mandato e l’intero apparato statale è incancrenito dalla corruzione. (Leonardo Altomare, “La geografia della democrazia: i  fattori di rischio nell’era della globalizzazione”, Notizie Geopolitiche del 15/02/21)
Come contraddittorio è, peraltro, anche il concetto stesso di Stato e di nazione, dato che i confini dello Congo sono stati di fatto tracciati artificialmente dallo stesso re belga Leopoldo II quando, durante la Conferenza di Berlino del 1884.1885, decise di fare di questo territorio una sua colonia, con il “buon proposito” dal sapore etnocentrico di portare civiltà e sviluppo all’interno della Regione dei Grandi Laghi. In realtà il dominio belga contribuì piuttosto a creare questo clima di perenne violenza che ancora oggi si respira, attraverso una massiccia campagna di sterminio per l’assoggettamento delle diverse comunità etniche che vi abitavano e per lo sfruttamento delle stesse nella produzione di cauciù, come ben narrato da Conrad nel suo romanzo “Cuore di tenebra”. Diverse comunità che, appunto, avevano ed hanno tutt’ora peculiarità differenti e che non si sono di fatto mai riconosciute del tutto nell’appartenenza ad un unico Stato imposto dall’esterno.
Quanto detto giá potrebbe essere sufficiente per comprendere le attuali condizioni in cui versa il territorio congolese, ma la situazione è peggiorata ulteriormente dopo la guerra del Ruanda, in particolare dal ’96 con la fuga nell’ex Zaire di gruppi armati Tutsi e Hutu e l’inizio di quella che è stata definita la “Guerra Mondiale Africana”, il cui eco si sente tutt’ora. Questa invasione esterna, ancora una volta legata tristemente ad una guerra invisibile e dimenticata, verso la quale le potenze occidentali non hanno mostrato il men che minimo interesse, ha contribuito ulteriormente ad incrementare la situazione di destabilizzazione e violenza nel Congo, specie proprio nella zona della foresta del Virunga e del Nord Kivu.
Come se tutto ciò non bastasse, si sono infine aggiunti anche i gruppi terroristici di stampo jihadista ad intensificare il clima di violenza che già ardeva. Dal 2013, in particolare, la stessa rigogliosa vegetazione eletta a nascondiglio ideale dai soldati Tutsi e Hutu, ha visto intensificarsi anche le operazioni degli jihadisti provenienti dai vicini territori della Regione dei Grandi Laghi e l’unione con le forze dell’Adf. Un fenomeno, questo, che sta prendendo sempre più piede in Africa, dove si assiste a quella che si potrebbe definire una corsa all’accaparramento delle zone più destabilizzate da parte dei terroristi, i quali mirano, approfittando proprio della giá presente condizione di caos, a sfruttare le ricche risorse che i governi praticamente assenti non sono in grado di gestire e ad arricchirsi tramite l’assalto ai villaggi o il sequestro di persone al fine di richiedere un riscatto o venderle al mercato nero (Nigeria docet).
Non va infatti confuso questo fenomeno con la diffusione dell’Islam, che non è priorità di questi gruppi terroristici. E non si può neppure affermare che Paesi come il Congo siano islamici, come giustamente fatto notare da esperti del calibro di Jean-Leonard Tuady. Ma non va neppure sottovalutato il pericolo che si diffonda il terrorismo in questi luoghi falcidiati da crisi sanitarie, economiche e politiche, dove l’affiliazione ai gruppi jihadisti si sta diffondendo sempre più, specialmente tra i giovani maschi, vista come l’unica opportunità per sfuggire alla miseria e trovare una fonte di guadagno.
Verrebbe probabilmente ora da chiedersi quali siano queste risorse che tanto attirano, non solo i terroristi islamici, ma anche tutti gli altri gruppi armati che infervorano in Congo. E qui eccoci di fronte ad un’ulteriore contraddizione: il secondo Paese più grande dell’Africa è anche uno dei più ricchi a livello di risorse minerarie, in particolare oro, diamanti, e, soprattutto, coltan e cobalto, elementi che stanno diventando sempre più ambiti perché fondamentali per la produzione di smartphone e altre tecnologie che utilizziamo quotidianamente. Ma la popolazione locale non può giovare di questa ricchezza. I giacimenti, infatti, non appena scoperti, sono subito assaltati dalle varie bande armate, contro le quali i ranger congolesi hanno da anni intrapreso una sfibrante quanto vana lotta per evitare l’eccessivo sfruttamento di queste risorse. I congolesi, specialmente i bambini, sono invece costretti a lavorare nelle miniere per estrarre i materiali preziosi, a condizioni disumane, con il costante rischio di perdere la vita a causa di crolli, e per una paga di pochi centesimi di dollaro, stipendio che per le loro famiglie significa, però, il limite fra la sopravvivenza e la morte.
Alla luce di quanto detto sinora verrebbe da domandarsi se ci sia solo oscurità nel futuro di questo Paese. Da un certo punto di vista parrebbe di si, dato che anche gli sforzi delle Nazioni Unite, con la loro missione MONUC, non hanno ottenuto grandi risultati. Ma la situazione parrebbe essere migliorata negli ultimi anni, in particolare dopo le elezioni del 2018 e la nomina a presidente di Etienne Tshisekedi,  il quale si è mostrato più collaborativo con le missioni internazionali come la MONUC e sembra stia riuscendo a ricucire i rapporti tra il Congo e i numerosi Stati africani con esso confinanti. Inoltre pare essere riuscito ad attrarre sul territorio congolese gli interessi anche di altri grandi potenze pronte ad investire nella Repubblica Democratica, in primis Stati Uniti, Cina e India. Se le loro mire non sono esclusivamente quelle di depauperare le intere ricchezze del Congo senza badare alle condizioni della popolazione locale è, tuttavia, ancora un pericolo interrogativo.

E proprio per contrastare questo rischio risulta fondamentale il lavoro delle missioni diplomatiche e delle agenzie come la WFP, le uniche che possono mediare tra interessi esterni e interni al Paese e far si che gli investimenti di grandi potenze straniere nei territori sottosviluppati si traducano in un effettivo volano per lo sviluppo di questi stessi territori.
Il pensiero, quindi, non può che in ultimo tornare da dove eravamo partiti, ossia all’ambasciatore Attanasio e al suo esempio di dedizione e impegno. L’aspettativa è che il mondo occidentale riconosca l’importanza di figure diplomatiche come la sua e che ne emuli la tenacia nel portare avanti la loro opera anche tra molteplici difficoltà, senza farsi scoraggiare dagli scarsi risultati positivi, dimenticando quei territori considerati una causa persa o ricordandosene solo quando si ha un ritorno nel loro sfruttamento. La speranza deve invece permanere e si deve guardare ai seppur piccoli miglioramenti ottenuti e su di loro continuare a lavorare per dare speranza a chi ha dinanzi al momento solo tenebra.