Una nave è rimasta incagliata all’interno del collo di bottiglia ed ora ci si chiede quali saranno le conseguenze a livello economico del blocco dei traffici in una delle principali vie di scambio
L’importanza delle vie di comunicazione marittime, in un tempo in cui la globalizzazione e l’interconnessione fra Stati anche molto distanti fra loro hanno raggiunto un tale livello di penetrazione nella vita delle persone, è divenuta più che mai primaria. E non potrebbe essere altrimenti, dato che il globo terrestre è occupato per più del 70% della sua superficie da acqua, anche se, spesso, si tende a dimenticarlo e a considerare la navigazione come un mezzo di trasporto e comunicazione di altri tempi, un fantasma ancorato ai passati miti di viaggi ed esplorazioni. Ma a ricordare agli uomini quanto ancora oggi sia importante questa modalità di trasporto e quanto sia tornata centrale nelle strategie geopolitiche delle potenze di tutto il mondo, o forse non abbia mai perso questa sua posizione, vengono in soccorso i fatti di cronaca, potremmo dire quotidiana, che si sono succeduti negli ultimi anni. Dalle isole contese nel Mar Cinese Meridionale, al più recente braccio di ferro fra Unione Europea e Regno Unito per i diritti di pesca, passando alla più tragica battaglia navale fra Israele e Iran che si sta combattendo a suon di navi abbattute e sta coinvolgendo numerosi Stati in rapporto con i due contendenti, gli esempi citabili sono molti.
Tra questi sicuramente va annoverata la recente vicenda del Canale di Suez. Martedì 23 marzo la nave portacontainer Ever Given della compagnia Taiwanese Evergreen è rimasta bloccata al chilometro 151 del Canale, incagliata fra le due sponde dopo che i piloti ne hanno perso il controllo a causa, come apparirebbe dalle prime indagini, di una tempesta di sabbia che ha ridotto notevolmente la visibilità, e di un forte vento che ha reso ingestibile la guida del gigante, un mezzo lungo 400 metri e largo 59, e con una massa di 220 mila tonnellate (Il Post del 24/03/2021). La ricostruzione dei fatti non ha ancora dato risposte certe sulle effettive ragioni che hanno provocato l’incidente e si parla anche di un black out della strumentazione di bordo, o, come affermato dal capitano della “Jolly Cobalto”, Tommaso Elmetto, intervistato dalla Stampa il 26 marzo, molto semplicemente un errore umano, che qualunque navigatore avrebbe potuto commettere. Le operazioni per liberare il gigante e “rimetterlo in piedi” non sono state semplici ed è occorsa una settimana per concludere i lavori e far ripartire finalmente il traffico all’interno del canale.
Le conseguenze dell’incidente
Il Canale di Suez è uno dei punti strategici nelle vie di comunicazione globali definiti choke point, colli di bottiglia, ossia punti fondamentali per permettere gli scambi fra Stati e Continenti diversi e, allo stesso tempo, assai rischiosi, dato che un loro intasamento provocherebbe gravi danni a livello mondiale, soprattutto se non vengono liberati in breve tempo e non si ripristina rapidamente il loro transito. Questo è proprio quanto avvenuto con il blocco del Canale di Suez, che ha impedito il passaggio a più di 200 navi rimaste in coda. I lavori per disincagliare l’Ever Given non si sono potuti di certo concludere in un giorno, visto anche il fondo sabbioso nel quale la portacontainer è rimasta arenata. Considerando che in media transitano 80 navi al giorno e il valore giornaliero delle merci che queste trasportano, stimato dall’agenzia Bloomberg, si aggira sui 9,6 miliardi di dollari, si può comprendere come possa essere sufficiente una settimana per provocare una ingente perdita economica. Si deve, inoltre, mettere in conto anche il tipo di merce trasportata e, di conseguenza, l’ulteriore danno economico dovuto a una sua carenza per i blocchi del trasporto. Attraverso Suez, infatti, si stima che venga trasportato il 10% del gas e del petrolio che transitano via mare da un capo all’altro del Pianeta (Lorenzo Vita, Insideover del 25/03/2021). Il blocco del transito di numerose petroliere ha fatto, di conseguenza, schizzare del 5% il prezzo dell’oro nero già dal giorno successivo all’incidente. Questo rincaro ha rischiato di causare, quindi, un ulteriore incremento dei costi e delle perdite per le navi ferme in coda, nel caso in cui il carburante delle loro scorte si fosse rivelato insufficiente e fosse stato necessario richiedere dei rifornimenti aggiuntivi. D’altra parte, l’incremento del prezzo del greggio ha reso ancora più costoso ed economicamente sconveniente per le compagnie navali affidarsi ad altre rotte per spostarsi tra Oriente ed Occidente. L’alternativa sarebbe stata, infatti, quella di circumnavigare l’Africa passando per il Capo di Buona Speranza, ripercorrendo le rotte dei grandi navigatori del passato. Il viaggio sarebbe stato, però, molto più lungo e insidioso, vista la folta presenza di bande di pirati, i quali sono tornati a colpire con molta più frequenza negli ultimi tempi. Ma l’altalenante prezzo del petrolio è il problema che preoccupa meno. Anzi, a detta di alcuni esperti, l’incremento che il costo del greggio ha subito negli ultimi giorni non sarebbe stato neppure causato dall’incidente di Suez, bensì da altri fattori, fra i quali i recenti attacchi registrati in Arabia Saudita da parte degli Houthi contro i depositi petroliferi e l’imminente vertice Opec Plus, fattori che rendono volatile il valore dell’oro nero. (Bellomo Sissi, Il Sole 24 Ore del 27/03/2021)
Mentre rimane contraddittorio l’affermare che il blocco delle navi petroliere nel Canale di Suez sarebbe un problema per la domanda di gas e greggio, che potrebbe essere, in realtà, tranquillamente soddisfatta attraverso altre vie di approvvigionamento terrestri, sfruttando i numerosi gasdotti, a preoccupare maggiormente è, invece, quanto trasportato da tutte le altre portacontainer. All’interno del canale, infatti, si stima transiti il 12% della merce scambiata via mare e un’interruzione nei rifornimenti porta al conseguente blocco della produzione per molte aziende in attesa di ricevere le materie prime a loro necessarie per funzionare.
Dunque ecco la principale causa del circolo vizioso che un incidente simile in una via di comunicazione marittima così vitale può creare, accentuata ancor più in un periodo nel quale già il rifornimento di alcune merci e alcuni prodotti risulta difficile a causa della scarsità e della continua guerra economica tra le maggiori potenze a suon di blocchi commerciali. Una situazione che ben rende l’idea di quanto gli Stati, malgrado in alcuni casi cerchino di mascherarlo predicando politiche rivolte verso un sempre maggiore nazionalismo e una sempre maggiore chiusura all’interno dei propri confini, siano ad oggi fortemente dipendenti gli uni dagli altri.
Superato l’impasse del blocco del canale, i costi e le perdite economiche non sono finite. Vanno, infatti, considerati anche gli effetti che questo incidente ha sul costo dei noli, già in crescita nell’ultimo periodo, ulteriormente incrementati a causa di un sovraffollamento dei principali porti internazionali, i quali si sono visti arrivare molte più navi di quelle preventivate. La chiusura di molte azienda a causa dell’epidemia ha portato a una scarsezza di container e moti di questi sono rimasti e rimangono tutt’ora in giacenza presso i porti, con l’impossibilità di rimandarli nei luoghi dove ha sede la produzione una volta svuotati e, di conseguenza, l’impossibilità di far fronte alla loro domanda, malgrado questa sia alta. Ciò ha provocato un incremento dei costi dei noli del 400%, toccando anche picchi dell’800% (Prof. Lanini Luca, Huffpost del 01/04/2021).
Si dovrà poi tenere conto, in questa carrellata di numeri, anche dell’ammontare dei risarcimenti che la compagnia Evergreen sarà chiamata a sborsare. Impossibile attualmente fare una stima, ma molti già sostengono che la copertura assicurativa della Ever Given, la quale ammonta a 3,1 miliardi di dollari, potrebbe non essere sufficiente. (dati Agi del 28/03/2021).
A quanto detto va, infine, aggiunto il contraccolpo economico, e non solo, subito dalle potenze che hanno la maggior influenza e il maggior controllo del Canale, in primis l’Egitto.
Secondo i dati del 2020, nell’anno della grave crisi pandemica sono state 19.000 le navi che hanno attraversato il canale, portando all’Egitto introiti per circa 6 miliardi di dollari, grazie ai dazi pagati. Una vera manna per l’economia egiziana, la quale non sta vivendo tempi troppo sereni e che, proprio a causa della pandemia, nell’ultimo anno ha perso una buona fetta di entrate derivanti dal turismo.
Le autorità del Cairo, del resto, sono ben consapevoli dell’importanza che rappresenta per loro Suez e di quanto sia fondamentale un suo funzionamento perfetto. Proprio per evitare incidenti simili sono state, infatti, definite diverse misure di sicurezza. Viene richiesta la presenza a bordo delle navi di un pilota del posto, inviato direttamente dall’Autorità di Suez, garante della gestione del canale, e di un tecnico di sistemi, chiamato a far fronte a eventuali problemi elettrici e meccanici. Inoltre il traffico è rigidamente regolato, con un’organizzazione del transito delle navi che prevede il passaggio di tre convogli al giorno, alternati da nord a sud e viceversa, i quali si incrociano all’altezza del Grande Lago Amaro. Il transito dura 15 ore in media e anche distanza fra le navi e velocità sono severamente imposte dall’Autorità.
In aggiunta a queste regole, per far fronte alle sempre maggiori richieste che provengono da navi sempre più mastodontiche, il governo egiziano ha avviato i lavori, che si concluderanno nel 2023, per un ulteriore allargamento del canale, già raddoppiato negli anni passati (i precedenti lavori sono terminati nel 2015), arrivando ad una lunghezza di 120 miglia. Ma quella per accontentare le esigenze delle portacontainer di ultima generazione pare essere una battaglia senza speranze per il Cairo, dato che le navi sono sempre più grandi e sempre più cariche, apparendo ormai come dei veri e propri grattacieli. Non stupisce, a detta di ciò, quanto era stato proposto dal governo americano, ossia di intervenire sulla Ever Given scaricandola di parte del carico, in modo tale da renderla maggiormente manovrabile e favorire le operazioni di drenaggio.
La storia di Suez
Avendo citato i lavori di ampliamento del canale terminati nel 2015, vediamo di ripercorrere in breve la storia di questa monumentale opera.
Il Canale di Suez è stato inaugurato nel 1869, anche se i lavori erano già terminati nel 1867, ma l’idea di collegare il Mar Mediterraneo con il Mar Rosso risale a tempi antichissimi. Secondo alcune fonti già intorno al 1800 a.C. I faraoni egizi avrebbero fatto costruire un primo canale che consentisse il collegamento fra i due mari. A riscoprire questa antica via d’acqua, denominata Canale dei Faraoni, fu addirittura Napoleone, nel 1799, il quale, tuttavia, rinunciò alla costruzione di un canale sotto consiglio dei suoi scienziati, i quali ritenevano erroneamente che sarebbe servito un ingente sistema di chiuse per farlo funzionare, considerando i livelli dei due mari differenti.
I consiglieri del Bonaparte furono smentiti dagli studi del francese Ferdinand de Lesseps, il quale ottenne la concessione, dall’allora sovrano dell’Egitto Muhammed Said Pascià, per iniziare i lavori di costruzione del canale nel 1854. Il progetto del canale fu, tra l’altro, realizzato da un italiano, l’ingegnere trentino Luigi Negrelli.
I lavori si conclusero dopo 10 anni e videro la collaborazione di diversi Paesi. La sua realizzazione, ironia della sorte, fu facilitata anche dal terreno sabbioso, uno degli ostacoli che ha, al contrario, reso più faticoso rimuovere la Ever Given ai giorni nostri.
Nel 1800 gli inglesi ne presero di fatto il controllo, conquistando l’Egitto e accaparrandosi il 44% delle quote della Compagnia del Canale di Suez, la quale gestiva lo stesso. Nel 1888, con la Convezione di Costantinopoli, si stabilì che il canale doveva essere ritenuto territorio neutrale sotto la protezione britannica.
Sin dai primi anni dalla sua creazione è stata chiara l’importanza e la preminenza di Suez quale via commerciale, e la stessa centralità è andata aumentando con il traffico di petrolio esportato dai Paesi del Golfo Persico.
La sua stessa importanza ha rappresentato negli anni per Suez una croce e una delizia, mettendolo al centro delle strategie politiche delle potenze mondiali e rendendolo suo malgrado anche protagonista delle azioni militari perpetrate dalle stesse, sia durante i due conflitti mondiali, sia successivamente.
Nel 1956 il presidente egiziano Nasser decretò la nazionalizzazione del canale. A questa manovra si opposero immediatamente Francia, Inghilterra e Israele, le quali riuscirono in breve tempo a conquistare la via di comunicazione, per essere, altrettanto rapidamente, costrette a ritirarsi sotto la pressione di Stati Uniti e Unione Sovietica. La situazione fu poi gestita dai caschi blu dell’ONU e fu, di fatto, la prima grande operazione di peacekeeping della neonata organizzazione.
Durante la Guerra dei 6 giorni, nel 1967, le forze israeliane occuparono tutta la sponda orientale del canale, spingendo l’Egitto ad imporre un blocco del traffico attraverso Suez, fino al giungo del 1975. All’epoca, in un mondo meno interconnesso e meno globalizzato, l’arresto degli scambi attraverso il Canale di Suez venne percepito in maniera minore dal commercio e dall’economia delle Nazioni. Tuttavia costrinse 15 navi a rimanere per l’intero arco di tempo ferme all’interno del canale. Le imbarcazioni furono completamente ricoperte di sabbia e questo portò a definirle la “Yellow Fleet”, la flotta gialla.
Come detto, nel corso del tempo l’importanza di Suez è accresciuta e anche il ritorno economico per l’Egitto, il quale ha stabilito nel 2014 di ampliare il canale, aggiungendo un’ulteriore sezione di 35 km ai 164 già esistenti e consentendo il transito di navi in entrambe le direzioni grazie ad un incremento della larghezza. Inoltre si è aumentata anche la profondità del canale in una sezione di 37 km. I lavori, come anticipato, si sono conclusi nel 2015.
A chi interessa Suez
Come si è visto in precedenza, il Canale di Suez riveste una importanza assai rilevante, sotto il profilo economico e strategico, per l’Egitto. Ma i cairoti non sono gli unici ad avere interessi nel buon funzionamento di questa via marittima e il numero di stakeholder è notevole.
L’Unione Europea è, forse, uno dei maggiori utilizzatori del canale per l’approvvigionamento di merci e materie prime e, di conseguenza, uno dei maggiormente colpiti dal blocco del traffico nelle sue acque, data la vicinanza con questa via di comunicazione. Un occhio di particolare riguardo va dato all’Italia, la quale sfrutta Suez per importare ed esportare circa un terzo delle merci trasportate via mare, 30,6 milioni di tonnellate sulle 93,8 totali (Cappelli Alessandro, Linkiesta del 25/03/2021).
Altro grande interessato alle vicende di Suez è la Cina, la quale vede nel canale un fondamentale tassello del suo piano per l’avvio della nuova Via della Seta.
Negli ultimi tempi, inoltre, anche Israele pare aver visto riaccendersi il suo interesse nei confronti di Suez. Come si può notare dalle recenti vicende, lo stato ebraico si è lanciato in una vera e propria battaglia navale con l’Iran e il controllo di Suez e delle acque limitrofe sta diventando un obiettivo sempre più caldo, al fine di impedire la comunicazione e gli scambi fra il nemico iraniano e altri Paesi arabi, primo fra tutti la Siria.
Anche la Turchia è parsa interessata a risolvere il blocco di Suez e ha subito allungato una mano verso l’Egitto, a detta di alcuni nel tentativo di riprendere i rapporti con il Cairo, divenuti più freddi con la caduta di Modi. Ma si deve anche guardare, a detta di chi scrive, alla mania di protagonismo che pare, negli ultimi tempi, essere divenuta centrale nelle scelte di Erdogan, il quale sembra voler essere presente in tutte le vicende che coinvolgono le grandi potenze mondiali, per sottolineare una volta di più che anche la Turchia fa parte del gruppo. Inoltre non vanno dimenticati i recenti tentativi di Ankara di allargare sempre più sua influenza nel Continente africano per rifondare una sorta di moderno Impero Ottomano.
Infine, come detto, il Canale di Suez rappresenta un collo di bottiglia e, di conseguenza, oltre ad essere un chocke point, è anche un hot spot, un punto caldo, la cui possibilità di controllo risulta strategica come deterrente per fare leva su altri Stati. I problemi causati dal suo blocco lo dimostrano. E questo lo sanno bene gli Stati Uniti, i quali hanno offerto, anche loro sin da subito, il contributo nelle operazioni di liberazione della nave incagliata.
Ma lo sa bene anche Mosca, e non a caso a novembre del 2020 il presidente Putin ha annunciato la costruzione di una base navale proprio nelle vicinanze del canale, a Port Sudan. La Russia ha inoltre tentato di sfruttare all’opposto, a suo favore il problema del blocco del canale per promuovere ulteriormente la rotta del Mar del Nord, dalla quale potrebbe trarre ingenti profitti qualora venisse prediletta a Suez, dato che molti canali in quell’area sono sotto il controllo di Mosca. Questa è, peraltro, un’altra questione che sta surriscaldando il clima internazionale, dato che altre potenze, capeggiate dagli Stati Uniti, non vedono di buon occhio queste pretese di dominio russe e vorrebbero che fosse applicato il diritto internazionale alla navigazione.
Le alternative a Suez
Giunti a questo punto sorge il dubbio su quale sia il futuro di Suez. Se il suo allargamento non è sufficiente a consentire il traffico di portacontainer sempre più gigantesche, ci si chiede quali siano le soluzioni alternative per il traffico via mare.
Si è detto a inizio dell’articolo che una possibile rotta da seguire è quella che permette di circumnavigare l’Africa attraverso Capo di Buona Speranza, passando per il Golfo di Aden e quello di Guinea. Tale via è, però, molto più lunga, quindi comporta costi decisamente maggiori, che al momento non sembrano renderla competitiva nei confronti dell’attraversamento del canale. Inoltre le suddette acque sono anche molto più rischiose a causa di un’intensa attività di pirateria. Tuttavia il recente blocco di Suez ha spinto alcune compagnie a rivolgersi verso questa direzione, una su tutte la stessa Evergreen, la quale ha dirottato verso questa rotta la nave gemella della Ever Given, e ha portato alla richiesta di un maggior pattugliamento dei mari intorno al Capo di Buona Speranza da parte delle flotte militari.
Altra possibilità, ancora , al momento, futuristica, sarebbe quella di passare a Nord, attraverso l’Artico. Per il momento questa rotta non è ancora percorribile dato che, fortunatamente si potrebbe dire, il ghiaccio polare non si è ancora assottigliato così tanto. Tuttavia è sicuramente una soluzione sulla quale le potenze mondiali stanno investendo molto e la recente attrazione per i Poli dimostrata da diversi Stati ne è la conferma.
Per ora rimane l’incertezza su quale sarà l’effettivo ammontare dei danni causato dal blocco di Suez. Di certo possiamo affermare che lo scambio e la comunicazione fra i diversi Stati rimane vitale, anche se vi possono essere dei segnali che portano a pensare ad una crisi della globalizzazione. Un legame, e una volontà di renderlo il meno vincolante possibile, che è alla base di molte altre tristi vicende di cronaca internazionale alle quali stiamo assistendo in questi mesi, solo apparentemente disconnesse le une dalle altre.