“Questo è il film-simbolo del festival. È un’opera eccessiva, violenta, vitale”. Queste sono le parole entusiaste con cui Mauro Russo Rouge, direttore del Torino Undeground Cinefest, ha introdotto la proiezione di Somehow.
Racconto on the road che segue una coppia di sbandati in giro per l’Europa a bordo di una decappottabile arrugginita. Lui, Alex, sempre al volante e col piede pigiato sull’acceleratore fugge dallo spettro degli abusi paterni e dal terrore di diventare come il suo genitore. Lei, sconosciuta senza nome con la bandiera USA stampata sugli shorts, accompagna l’uomo nel vagabondaggio senza dire una parola, assecondandolo in tutte le sue iniziative.
Europeo Americano
Tutto rimanda ad un immaginario tipicamente americano. Gli amanti in automobile che sfrecciano sull’asfalto di un’infinita strada dritta, cercando di raggiungere una meta irraggiungibile: Casablanca. Nelle varie tappe del loro viaggio, i due fanno tanto sesso, bevono fin troppa birra mentre sono al volante e sniffano quintali di cocaina. Sembra di vedere una di quelle coppie dannate dei vecchi film destinate all’autodistruzione stile Bonnie e Clyde. Ma se il cinema per antonomasia compatisce e giustifica la degradazione a cui sono costretti i suoi protagonisti, Somehow rifiuta quest’approccio. Si respira una tensione al liberismo e a quell’immaginario cool tipicamente americano, ma tutto trasuda di un senso di ineluttabilità e pessimismo propriamente europeo.
Il film nel montaggio e in alcune scelte stilistiche strizza l’occhio a classici come Easy Rider e Fino all’Ultimo respiro. Girato con un grandangolo ultra-distorto che rimanda ai lavori più pop di Terrence Malick e al senso di alienazione del cinema di Gus Van Sant. La storia e i suoi protagonisti oscillano tra il sogno americano e il più spietato realismo europeo. Tutto è filmato con un approccio documentaristico: ogni scena è ripresa con long-take a cui sono stati applicati tagli interni. I dialoghi sono stati completamente improvvisati dagli attori, che hanno attinto a piene mani dal loro vissuto per dare vita ai personaggi.
Aki T. Weisshaus, il cui cognome significa letteralmente “Casa Bianca” è uno pseudonimo che raccoglie tutti i membri della troupe: dagli attori ai tecnici. Ogni componente della crew è autore del progetto in egual misura. Tutti si sono imbarcati in questo folle viaggio per l’Europa, cercando di far bastare i soldi (limitati) per dare vita al progetto.