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La nuova serie targata Netflix, ispirata dall’omonimo manga giapponese, ha esordito lo scorso 10 dicembre, registrando un alto gradimento di pubblico fin da subito, indicatore di come all’ormai tanto decantato cinecomic si sia affiancato il “cinemanga”. A conti fatti, potrebbe rivelarsi positivo per l’intera industria.

A ben pensarci, il fiato sul collo avvertito da Netflix, proveniente da Prime Video e Disney+ su tutti, deve aver ottenuto i risultati sperati dai suoi utenti. La Regina Degli Scacchi (trovate la mia recensione sullo scorso numero, ndr) è lì a testimoniare un incremento qualitativo che nel corso dell’ultimo anno e mezzo si era perso per strada. E all’improvviso, un po’ dal nulla a dire il vero, ecco apparire all’interno del catalogo Alice In Borderland, una nuova serie dal titolo sicuramente accattivante, capace di destare curiosità anche nei confronti del pubblico più scettico. Un prodotto ispirato all’omonimo manga giapponese (Imawa No Kuni No Arisu), scritto e illustrato da Haro Aso. Se negli ultimi 10-15 anni la produzione cinematografica hollywoodiana ha scelto di soddisfare i lettori del fumetto americano con protagonisti tutti (o quasi) d’un pezzo in calzamaglia, è probabile che la vittoria di Parasite agli ultimi Oscar abbia aiutato ad aprire le porte di un cinema orientale sin troppo sottovalutato fino ad oggi. E qui occorre fare un distinguo: mentre in Corea del Sud la tendenza è portare sul grande schermo sceneggiature originali, in Giappone le possibilità di appoggiarsi e ispirarsi a manga e altre opere di categoria è enorme.

E’ altresì evidente la differenza tra fumetto occidentale (in particolare quello americano) e manga orientale, dove il primo storicamente trova forza nella forma, più che nella sostanza, al contrario del secondo, fautore e artefice di un’incredibile qualità contenutistica (Eichiiro Oda, Hiromu Arakawa, Yoshiyuki Sadamoto, e potrei continuare per giorni).

Certo, inutile nascondersi dietro a un dito, la lista di esperimenti falliti è lunga, basti pensare a Dragon Ball Evolution o più recentemente a Death Note, ma come si dice in questi casi, sbagliando si impara. Alice in Borderland è la dimostrazione che non è impossibile sceneggiare al meglio un’opera giapponese, per quanto si possano presentare problemi di ogni sorta.

La storia ci presenta tre ragazzi giapponesi senza grandi prospettive e disillusi da una vita incapace di soddisfarli. Nel momento in cui si ritrovano all’improvviso in una Tokyo deserta, dove la popolazione sembra svanita nel nulla nel giro di pochi minuti, comincerà per loro una sorta di cammino lungo la via di Damasco, dove tutti, chi prima chi dopo, affronteranno un percorso di maturazione personale partecipando a sadici giochi di sopravvivenza, catalogati in tipologia e livello di difficoltà in base a semi e numeri delle carte da gioco.

Ciò che colpisce fin da subito, soprattutto per coloro che hanno letto il manga, è la cura con cui sono stati scelti gli attori, la cui caratterizzazione denota un’attenzione incredibile da parte degli autori e di chi ha supervisionato il progetto. L’impressione che si ha fin da subito è che una delle priorità della produzione fosse l’assoluta fedeltà della serie nei confronti del manga, più difficile da trovare ad esempio nel classico cinecomic americano, dove si è scelto consapevolmente un approccio più distintivo che andasse a creare il Marvel Cinematic Universe così come lo conosciamo oggi, prendendo più o meno le distanze dalle storie fumettistiche.

Parlando della serie in sé, è logico intuire che si tratta di un prodotto nato e ideato per una fascia d’età giovane, capace di essere stimolata e incuriosita da un immaginario forse non ancora così conosciuto. La narrazione degli eventi scorre piacevolmente, e nonostante l’apparente difficoltà di comprensione di determinati episodi all’interno della storia, è importante sottolineare come non si sia caduti nella trappola della divulgazione scientifica a tutti i costi tanto cara a Cristopher Nolan (Tenet è l’esempio più calzante). La rappresentazione visiva dei comportamenti e delle azioni dei personaggi basta e avanza per tenere alta l’attenzione dello spettatore, senza grandi sforzi di concentrazione. L’immaginario distopico, l’atmosfera cupa e i frequenti colpi di scena chiudono il cerchio dentro al quale si può godere del più classico dei survival horror. D’altronde, senza nulla togliere alla serie, non si può certo parlare di un prodotto che trova la sua raison d’être nell’originalità, ma questo non è necessariamente un male. La matrice di qualità dopotutto non va ricercata nel prodotto originale a tutti i costi.

Molto forte all’interno delle puntate è la presenza di valori morali e umani che prendono forma col procedere della narrazione, sebbene sia una costante già vista nei panorami distopico-apocalittici (un po’ come succede in The Walking Dead con i “vaganti”). Ben presto, infatti, i game di sopravvivenza vengono posti sotto una luce differente, divenendo una cornice per le relazioni interpersonali dei protagonisti, questi caratterizzati egregiamente grazie a uno sviluppo e una maturazione costanti con il procedere della stagione.

Nel complesso si tratta sicuramente di un prodotto riuscito e destinato a far discutere, tuttavia per onestà intellettuale non si può parlare di perfezione, alcuni flashback dei personaggi potevano essere gestiti meglio, specie verso la parte finale, dove si incastrano maldestri andando a smorzare la tensione creata in precedenza. In ogni caso non vanno ad inficiare quanto di buono realizzato su larga scala.

Al primo mese dal debutto i risultati parlano chiaro: la fruizione da parte del pubblico è stata eccellente, tanto da confermare in via ufficiale la realizzazione di una seconda stagione che dovrebbe veder la luce nei primi mesi del 2022. Nell’attesa, non resta che godersi questa new wave seriale made in Oriente, con buona pace dei vendicatori.