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Florence Carpenter e Lavinia Gilfillan sono donne moderne della Minneapolis della prima decade del ‘900. Supportano il diritto delle donne all’educazione – loro stesse hanno frequentato l’università. Partecipano alle campagne di raccolta fondi per l’edificazione di campus per le studentesse, e sono habituées dei circoli femminili della classe borghese medio alta dell’America bianca, dove si disquisisce di attivismo, riforme sociali e beneficenza. Le tre incontrano spesso Clara Ueland e Josephine Schain, anche loro aspiranti regine della filantropia: si parla di letteratura, filosofia, sull’importanza della moderazione, e ci si scambia consigli sul college più valido a cui affidare la carriera accademica delle figlie adolescenti. Niente sembra essere in conflitto nei profili di queste quattro donne, tranne un dettaglio: le prime due, davanti a un negozio di fiori, sceglierebbero di comprare un bouquet di rose rosse, mentre le seconde preferirebbero di gran lunga quelle gialle.

Non si tratta ovviamente di mera armocromia, ma il motivo della differenza di colore preferito di una rosa è direttamente collegato alla cordialità evasiva degli argomenti di cui non amano disquisire durante gli incontri nei circoli pomeridiani. Ueland e Schain, fuori dal club femminile, sono rispettivamente la presidente della Minnesota League of Women Voters e l’organizzatrice della manifestazione nazionale per il suffragio femminile del 1914 a Minneapolis. Carpenter e Gilfillan, invece, occupano le poltrone di un’altra associazione, chiamata Minnesota Association Opposed to Woman Suffrage. Le rose dai colori differenti raccontano i pensieri contrastanti delle donne: gialle per le suffragette, rosse per coloro che si oppongono al movimento, chiamate per questo «anti-suffragette».

Per chi vive nel 2024 non è facile compiere uno sforzo immaginativo per contemplare una realtà storica dove esistono delle donne (parecchie, non parliamo di minoranze) che attivamente si battono perché non vogliono il diritto al voto. Uno sforzo mentale ancora più esagerato starà nel silenziare, offuscare le immediate reazioni di sorpresa e incredulità per comprendere come sia stata assolutamente reale, cento anni fa, l’esistenza delle ‘Antis’.

È bene racchiudere la questione in un periodo storico meglio definito: tra il diciannovesimo e ventesimo secolo si collocano gli anni della Progressive Era, un periodo di universale e sentito desiderio di un panorama sociale più moderato e di un’applicazione politica di stampo riformatorio – per risanare i danni morali degli anni tumultuosi di corruzione della appena conclusasi Gilded Age di fine ‘800. La risposta di una cultura più morigerata si vede nei primi germogli del proibizionismo (il divieto di consumo e vendita di alcolici che si verificherà dal 1920 al 1933) e nella volontà di un cambiamento politico all’acuirsi dei movimenti sociali per i diritti delle minoranze: si spiega così la collocazione temporale del movimento femminista delle suffragette. Tuttavia, ecco calpestare il terreno di gioco anche dal contro-movimento, ovvero quello delle anti-suffragiste: le quali, nonostante credano fermamente nel proprio valore di donne, e proseguono, similmente, la marcia instancabile per l’affermazione sociale della donna in quanto cittadino di prima categoria, non credono che il diritto al voto possa essere di alcun aiuto.

L’immediata reazione è automatica: queste donne sono ciò che rimane di un’obsoleta civiltà vittoriana ottocentesca, dove la donna è regina e prigioniera della sfera domestica, si occupa del ‘focolare’ e dell’educazione dei figli, lontana dalla vita pubblica, e quindi anche dal desiderio di farne parte. Tuttavia, come i più attenti storici hanno notato, rivalutando l’argomento, si tratta anche di una reazione semplicistica: le donne che fanno parte del contro-movimento sono in realtà intellettuali, attiviste e cittadine attente, che al contrario incoraggiano le donne alla partecipazione sociale, ma non condividono con le colleghe suffragiste il metodo per questa affermazione della propria figura. È innegabile che la fazione delle Antis fosse più conservatrice – e che confidasse, nascoste dalle più luminose e nobili delle teorie, nella forza protettiva dello status quo della loro privilegiata e istruita borghesia bianca – ma esiste un valore ideologico che sarebbe un peccato non raccontare.

anti suffragiste
Un bottone dell’epoca che recita «Vote No On Woman Suffrage»

La cosa più difficile da elaborare e digerire si nasconde nella scoperta di quest’anima nascosta – e forse meno ostile a chi ne legge nel 2024 – della lotta di queste donne: le anti-suffragiste credevano eccome nella partecipazione sociale, ma non in quella politica. Esse credevano nell’impegno filantropico delle associazioni di beneficenza, nella forza delle lotte per l’educazione, e nella capacità di una donna di dare il proprio contributo nelle organizzazioni sindacali per migliorare la società. Ciò che non condividevano con le suffragiste era il desiderio di diventare animali politici, perché avrebbe annientato un grande loro vantaggio sociale, la ‘nonpartisanship’. Il termine inglese è semplicemente più calzante: significa la ‘non appartenenza ad alcun partito’. La filosofia Antis si spiegava esattamente così: le donne preferivano lavorare nel loro campo di azione del progresso sociale – la comunità vera, fatta di persone e problematiche risolvibili direttamente da loro – piuttosto che accettare il diritto al voto e in un certo senso ‘perdere’ la libertà di non doversi allineare con alcun pensiero politico. La neutralità politica era ciò che le distingueva dagli uomini e dalla sfera politica, e loro non volevano perderla, perché si sarebbe tradotto in un contributo sociale progressista ‘macchiato’, ‘invaso’, e a volte corrotto da un’ideologia politica.

Negli Stati del Sud le cose erano un po’ diverse. Inquadrando pressoché qualunque questione storica, politica e sociale negli Stati Uniti, il razzismo c’entra, e anche qui lo si identifica senza scavare troppo a fondo. Dolly Blount Lamar e Mildred Rutherford erano nel 1913 le più attive anti-suffragiste dello stato della Georgia, entrambe membri della United Daughters of the Confederacy (UDC), il cui obiettivo primario era la protezione e la cura del retaggio culturale confederato – quello degli Stati che avevano da poco perso la guerra civile, tra cui la Georgia – tramite la creazione di memoriali confederati, la costruzione di istituti di istruzione ‘del Sud’ e l’inserimento di curricola universitari in Storia del Sud. Questi stati sono ancora infastiditi dal brutto ricordo del tentativo della Reconstruction Era: il (breve) periodo dopo la guerra civile che proiettò, grazie alla ratifica del quindicesimo emendamento della costituzione degli Stati Uniti nel 1870, un orizzonte di accrescimento dei diritti civili degli uomini afroamericani, che avevano ottenuto il diritto al voto. La parvenza di una società meno nostalgica dell’istituzione della schiavitù si era presto dissipata, tuttavia, con l’inserimento delle leggi Jim Crow e l’arma della segregazione razziale che aveva riportato la supremazia bianca al massimo degli albori. È quindi facile vedere come il suffragio femminile fosse un problema in questo contesto: per le Antis, la richiesta insistente e l’eventuale raggiungimento del voto delle donne rappresentava un indebolimento significativo della granitica politica del Sud suprematista, che avrebbe aperto il varco ad altri diritti domandati a gran voce. Inoltre, la campagna suffragista è interpretata al Sud come un’altra interferenza del governo federale – quello di Washington – nella linea politica degli stati del Sud, dopo quella dell’abolizione della schiavitù e del diritto al voto per i «free men». «Al posto di andare ai seggi, date i giusti consigli ai vostri mariti, così che possano votare ciò che è giusto», lamentavano le anti-suffragiste, perché per ‘curare’ la società, la donna agisce fuori dalla politica, «we do not wish to do a man’s work», riconoscendo il posizionamento della donna nella sfera del dominio domestico e proteggendo i moralia delle convenzioni di genere: il suffragio assottiglia le linee del genere, e una delle tesi portate dalle Antis era quella della politica come attività poco femminile.

Tuttavia, come la storia insegna, la battaglia delle Antis vede un risultato a favore della ben più famosa e ricordata fazione avversaria. Nel 1878, durante la primissima proposta di bozza sottoposta al Congresso, il disegno dell’emendamento per il suffragio femminile era stato popolarmente battezzato con il nome di una delle suffragiste famose in tutto il paese, il Susan B. Anthony amendment. Quaranta sessioni al Congresso dopo, e un’avventura burocratica che meriterebbe una pellicola cinematografica tutta per sé, il 4 giugno 1919 il Senato approva il diciannovesimo emendamento della costituzione, che proibisce agli Stati di negare il diritto al voto in base al sesso.

Pur essendo passato, per essere valido, un emendamento doveva essere ratificato da almeno tre quarti degli allora quarantotto stati parte della nazione. Il Tennessee viene chiamato per questo «the perfect 36». Dopo che quasi tutti gli stati confederati – ovvero quelli del Sud conservatore – hanno istantaneamente rifiutato la ratifica, prime fra tutte Georgia e Alabama, la leggenda vuole che nella Assemblea Generale di Nashville la votazione si sia conclusa con un singolo voto di scarto per l’approvazione, dopo che il deputato ventiquattrenne Harry T. Burn, pur indossando nel taschino una rosa rossa, lesse una lettera della madre Febb, che recitava: «Caro figliolo, urrà e vota per il suffragio, non esitare mi raccomando [ … ] è da un po’ che aspetto che tu ti faccia sentire, ma ancora niente… non dimenticarti di fare il bravo!» ♦︎


La foto presente nell’articolo è parte dell’archivio dello Smithsonian Institution