In Italia, a volte, si ha l’impressione che il teatro sopravviva solo grazie ai grandi nomi: grandi drammaturghi dei secoli passati o attori di grande richiamo sul palcoscenico, perché il pubblico medio cerca grandi sicurezze e, talora, chi seleziona quali spettacoli mettere in cartellone ancora di più. Shakespeare, Goldoni, Čechov o Pirandello portati sulla scena da un Gabriele Lavia, un Massimo Popolizio, un Paolo Pierobon o un Alessandro Gassmann garantiscono alla sala il tutto esaurito e al pubblico spettacoli che sono frutto di una produzione importante, allestiti in teatri importanti, che sostengono investimenti altrettanto importanti in promozione pubblicitaria. Siamo spettatori esigenti oppure viziati, abitudinari e poco coraggiosi?
La maggior parte di noi è disposta a spendere il proprio tempo nella visione di film o di serie tv di scarso valore, ma non di uno spettacolo teatrale di cui non conosciamo, anche solo per sentito dire, autore, testo o interpreti. Come se ci rovinassimo lo stomaco mangiando tutti i giorni nei fast food, ma poi guardassimo con sospetto e ci rifiutassimo di acquistare alimenti più sani, perché confezionati da brand dei quali non abbiamo mai visto la réclame. Diventiamo improvvisamente cauti, iperselettivi, penalizzando tutto quello che, essendo meno noto, non rappresenta ai nostri occhi una garanzia. Se avessi adottato questo criterio, e fortunatamente non l’ho fatto, qualche sera fa non sarei andato al Gobetti a vedere Arlecchino Furioso, tantomeno sarei tornato a rivederlo con piacere a distanza di un paio di giorni, portando con me altre persone. Lo spettacolo, inserito nella stagione dello Stabile di Torino, è messo in scena da StivalaccioTeatro, una giovane compagnia di teatro popolare nata a Vicenza nel 2007, che in questo caso rinnova la tradizione secolare della Commedia dell’Arte con un canovaccio inedito, a cura di Giorgio Sangati e degli interpreti.
L‘Arlecchino Furioso inizia a Cipro, dove il nobile Leandro (Michele Mori) è fatto prigioniero dai turchi. Sua moglie, Isabella (Anna De Franceschi), riesce a fuggire per mare e raggiunge Venezia, dove ha promesso di attendere il suo sposo. Ma passano ben dieci anni prima che Leandro riesca a liberarsi dalle galere turche, e quando raggiunge la Serenissima Isabella si è appena risolta, suo malgrado, a cercare un nuovo marito, spinta dal buon senso pratico e dalla saggezza popolare della sua servetta. Nelle diverse repliche, si alternano in questo ruolo, con inflessioni dialettali e caratterizzazioni differenti, Eleonora Marchiori nei panni di Ricciolina e Sara Allevi come Romanella. Tuttavia, per invidia, Isabella vieta alla servetta di sposare il suo Arlecchino (Marco Zoppello) prima che lei abbia trovato il ‘true love’ e celebrato le proprie nozze. Così i due innamorati sono spinti a scovare al più presto l’uomo giusto per la padrona. Leandro, per sfuggire ai turchi, che ancora lo cercano tra i vicoli e i canali di Venezia, indossa una maschera e assume l’identità del Capitan Buttafogo. Incontra e prende al suo servizio proprio Arlecchino, che individua in lui un potenziale marito per Isabella e trama maldestramente con Ricciolina/Romanella perché la padrona conceda la sua mano al capitano. Così, tra canzoni e capriole, botte da orbi e svenimenti, sbronze, equivoci e scambi di persona, il destino dei quattro si intreccia e si ingarbuglia a tal punto che una folle gelosia, nata da un sospetto di infedeltà, renderà Arlecchino furioso e omicida. Ma questa è una commedia, vorrete mica che finisca così?
La platea del Gobetti è quella sabauda e raccolta di un teatro cittadino in stile neoclassico, nato per ospitare le rappresentazioni che un tempo venivano allestite nei salotti dei palazzi privati. Sulle pareti i ritratti delle nove muse osservano silenziosi gli spettatori. Un fragoroso ingresso da fondo sala spettina il pubblico prima ancora che si abbassino le luci. Tuona il tamburo, si levano leggere le note di una fisarmonica e quelle smorzate di un chitarrino scordato: «Venghino siore e siori, venghino! La compagnia dello stivale è arrivata in città!». Il sipario è già aperto, e su quel palco incorniciato da stucchi dorati un altro palco, fatto di rustiche assi di legno e un fondale di stoffa, viene issato con funi dagli attori. Cantano, recitano facendo i giocolieri con lingue e cadenze diverse, inscenano duelli e fughe per mare con la partitura mimica, la grande fantasia e i poveri, nobili mezzi del teatro di strada. Giocano con una tradizione popolare antica, trapuntandola di citazioni: da Jacopo da Lentini a Dario Fo, Edmond Rostand, Shakespeare, Omero, Quentin Tarantino e chissà quanti altri. Sfondano la quarta parete con energia e grazia e singolare autoironia. Ottengono la partecipazione della platea, che risponde divertita, senza l’imbarazzo e il disagio di chi a scuola viene interrogato a sorpresa. Ma gli spettatori seduti in prima fila non ridano troppo e facciano attenzione: qualcuno con una maschera potrebbe scendere dal palco per rubare loro le scarpe. Le musiche eseguite dal vivo alla fisarmonica da Pierdomenico Simone o Veronica Canale tingono di sogno uno spettacolo che parla a un pubblico universale, travalicando differenze di età e di formazione culturale, come solo il teatro popolare sa fare. Intanto una luna senza tempo è scesa sulla laguna, la compagnia si congeda e, quando gli applausi si protraggono, una voce dal palco grida alla platea con irriverenza buffonesca: «Ma andatevene a casa!!!».
Il 20 novembre 2023 Torino aveva già accolto StivalaccioTeatro proprio al Gobetti, dove era stato conferito alla compagnia il prestigioso premio ANCT – Associazione Nazionale Critici di Teatro – per l’apporto professionale e creativo nella riscrittura di grandi classici secondo le modalità della Commedia dell’Arte, per la produzione di spettacoli, l’organizzazione di rassegne e laboratori formativi originali e stimolanti.
Da questo mese, invece, StivalaccioTeatro porterà in tournée Arlecchino muto per spavento, ispirato al canovaccio settecentesco di Luigi Riccoboni, attore modenese, naturalizzato francese, noto con lo pseudonimo di Lelio. Riccoboni, trovatosi a Parigi in veste di capocomico di una compagnia in cui il leggendario interprete di Arlecchino, Tommaso Visentini, non parlava francese, fece di necessità virtù ed ebbe l’astuzia di costruire tutto l’intreccio del suo Arlequin muet par crainte in funzione di questa difficoltà, che divenne il motore della vicenda. Il suo lavoro ebbe enorme successo e fu uno dei canovacci più rappresentati nella Parigi dei primi del ‘700.
Come nella nostra migliore tradizione teatrale, auguro a StivalaccioTeatro tanta merda per un nuovo anno di spettacoli pulsanti e teatro vivo. E vi saluto con il motto di questi interpreti meravigliosi, che da tempo meritano il posto che hanno nei maggiori circuiti di distribuzione nazionali ed esteri, dimostrando anche a quel pubblico pigro e diffidente di essere diventati una garanzia senza sbandierare grandi nomi, ma esclusivamente con la forza autentica delle loro capacità e della loro verve: «VIVA IL TEATRO, VIVA LA COMMEDIA!». ♦︎
Le immagini presenti in copertina e nel testo sono della compagnia teatrale StivalaccioTeatro