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Myanmar: l’esperimento democratico finisce dopo l’arresto di Aung San Suu Kyi e l’esercito impone un nuovo regime militare

Si dice che la storia si ripeta. I recenti avvenimenti del la Birmania sono, purtroppo, una decisa conferma di questa affermazione. Il primo febbraio, infatti, la leader del partito della Lega Nazionale per la Democrazia, nonché, di fatto, premier del Paese, Aung San Suu Kyi, è stata nuovamente arrestata dall’esercito, il quale aveva già costretta agli arresti domiciliari la Lady per ben 15 anni, dal 1989 al 2010 imponendo ai birmani l’oppressione del regime militare fino alle fatidiche elezioni democratiche del novembre 2015, le quali avevano sancito il trionfo assoluto del Ndl.

La storia si ripete e nuovamente la Birmania torna sotto la dittatura militare, la quale, secondo quanto affermato dal generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito, durerà fino a che non si terranno nuove elezioni effettivamente democratiche. La premio Nobel per la pace Suu Kyi è stata, infatti, accusati di brogli elettorali nelle ultime elezioni di novembre 2020, dove il suo partito ha ottenuto una rinnovata vittoria netta, conquistando il 83% dei voti. (Bultrini Raimondo, La Repubblica del 01/02/2021)

Anche queste parole già sentite, le quali paiono l’eco di affermazioni provenienti da altri tempi e altri luoghi, dove i soldati hanno preso il potere con un golpe. E allo stesso modo paiono quelle di un copione già risentito più volte le parole con le quali l’Onu e numerosi capi di Stato in tutto il mondo hanno condannato l’azione dei militari birmani, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, alla Gran Bretagna, richiedendo l’immediata scarcerazione della leader democratica e minacciando il ricorso alle sanzioni qualora l’esercito si rifiutasse di lasciare il governo.

Le sole minacce, si sa, serviranno a poco e neppure sfioreranno le orecchie dell’ambizioso generale Hlaing ora che la sua scalata alla conquista del potere in Myanmar può dirsi finalmente compiuta. Si spera quindi che le parole a sostegno di Aung San Suu Kyi giunte da tutto il mondo non rimangano solo tali e che siano effettivamente accompagnate da interventi concreti. Al momento questa prospettiva non pare, tuttavia, la più probabile: la bozza di risoluzione proposta dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, riunitosi martedì 2 febbraio, ha già visto la sua fiamma esaurirsi prima di accendersi a causa del veto posto dalla Cina.

Ma intanto che si attende la reazione della comunità internazionale, la quale pare, però, avere le mani legate, all’interno del Paese le proteste della popolazione si sono fatte sempre più intense, specie negli ultimi giorni, con migliaia di persone scese in piazza in diverse città del Paese per richiedere la scarcerazione della Lady, al momento costretta agli arresti sicuramente almeno fino al 15 febbraio, con la nuova accusa, oltre a quella di maneggi nelle elezioni, di detenzione di merci importate illegalmente dall’estero, a causa di alcune radioline trovate nella sua casa di Naypyidaw.

I manifestanti hanno inoltre richiesto che fossero rilasciati gli altri esponenti del partito Ndl arrestati nel corso della settimana, e che il loro voto di novembre fosse rispettato dal regime militare, esponendo coraggiosamente i colori della bandiera dello stesso partito di Suu Kyi e prorompendo in quello che sta diventando il gesto tipico delle proteste contro i regimi golpisti nel sud-est asiatico, dalla presa di potere dei militari in Thailandia del 22 maggio 2020, ossia il braccio alzato a mostrare le tre dita centrali della mano, gesto tratto direttamente dai romanzi della trilogia fantasy di Hunger Games di Susanne Collins.

La rivolta non violenta del popolo birmano ha, quantomeno, sortito l’effetto di costringere il regime di Hlaing a schierare numerosi poliziotti antisommossa per le strade delle città e a bloccare l’accesso a internet e diversi social network, primo fra tutti ad essere oscurato, per una certa ironia della sorte, Facebook. Il social di Zuckerberg aveva infatti cancellato il profilo di Hlaing, il quale aveva puntato molto su di esso per mostrare il suo impegno per la Nazione e diffondere la sua propaganda politica, a seguito delle parole innescanti l’odio verso i Rohingya e la successiva strage di questa minoranza etnica perpetrata dallo stesso generale.

Dunque con il blocco di internet e dei social si è sancito il definitivo crollo dell’esperimento democratico in Myanmar, proprio nella settimana in cui doveva insediarsi il nuovo Parlamento con il quale il partito di Aung San Suu Kyi sperava anche di riuscire a promulgare una serie di riforme che avrebbero dovuto minare le fondamenta del grande potere dei militari.

Ma possiamo veramente affermare che quello che aveva retto il Myanmar fino al fatidico colpo di stato del primo febbraio fosse un governo democratico?

La risposta è sicuramente negativa purtroppo. La democrazia instauratasi dopo le elezioni del 2015 si basava su una convivenza fra Nld e gerarchie dell’esercito più che mai fragile, con il 25% dei seggi garantiti ai militari e molti ministeri chiave nel governo rimasti in mano a quest’ultimi. Impossibile quindi per il governo civile avere una vera maggioranza in Parlamento e attuare di conseguenza riforme senza l’appoggio del Tatmadaw, l’esercito.

Da non dimenticare, inoltre, la repressione a cui sono costrette alcune minoranze etniche, in particolare il caso del massacro dei rohingya, la minoranza di fede musulmana nel Paese, di fatto un genocidio che ha provocato circa 7.000 vittime. Avvenimento che non era stato condannato dalla stessa Suu Kyi, la quale pareva intenzionata a giustificare il fatto e nascondere la vera entità del dramma, provocando così una caduta d’immagine nel mondo occidentale del premio Nobel per la pace. La stessa Suu Kyi che aveva persino difeso i militari birmani di fronte alla corte dell’Aja, affermando che quello compiuto contro la minoranza rohinya non poteva essere definito genocidio.

Ci si deve, però, interrogare se veramente la Lady della Birmania avesse in quest’occasione voltato le spalle ai valori difesi per una vita o se non fosse piuttosto stata costretta, durante tutto il corso di questo esperimento democratico, ad assecondare in parte l’esercito per evitare che i militari le si rivoltassero contro e il Paese precipitasse in una crisi peggiore. Se si guarda alla storia del Myanmar si può vedere, infatti, come esso non sia mai stato una Nazione unita, ma piuttosto un insieme di numerose etnie diverse, riunite dopo l’ottenimento dell’indipendenza dal dominio britannico nel 1948, le quali non si sono però mai riconosciute di fatto appartenenti ad un unico popolo.

Gli scontri interni della Birmania fra le diverse minoranze sono tutt’ora frequenti e solo la presenza del Tatmadaw riesce a creare un certo effetto deterrente. Dunque l’appoggio da parte della leader del Nld ai militari potrebbe essere visto più come una necessità per evitare che gli squilibri interni alla Birmania possano incrementare, cercando, nel frattempo, di migliorare le condizioni economiche del suo popolo. Solo allora, con una situazione intestina più tranquilla e gestibile, si potrebbe pensare di avviare un processo più drastico di emancipazione dal potere militare. Prova ne sono le riforme che la Lady si proponeva di far approvare con il nuovo parlamento.

La stessa dicotomia tra la volontà di abbattere lo strapotere dell’esercito e la necessità di non perdere l’appoggio dei militari sta determinando in questo momento la strategia di Pechino. La Cina  vede nel Myanmar una grande occasione per aprirsi un corridoio economico verso l’Oceano Indiano evitando di passare per acque presidiate dai rivali statunitensi. Il rapporto fra i due Stati si era intensificato, tuttavia, proprio con l’avvento al potere di Aung San Suu Kyi, la quale aveva deciso di appoggiare il progetto cinese della Belt and Road, probabilmente vedendovi un’occasione importante per il Myanmar per risollevare la sua economia. Non altrettanto cordiali con Pechino erano stati i militari durante il primo regime che aveva governato la Birmania, vedendo la Cina come un nuovo conquistatore al pari della Gran Bretagna.

Dunque per la Cina non pare conveniente appoggiare il nuovo governo della Birmania del generale Hliang, il quale potrebbe vedere di cattivo occhio la penetrazione di Pechino all’interno del Paese, ma, allo stesso tempo, non ha al momento interesse a farselo nemico, come dimostrato dal veto al Consiglio di Sicurezza, intanto per cercare di trovare il consenso dei militari e, in secondo luogo, perchè una situazione di destabilizzazione e maggiore debolezza della Birmania potrebbe esserle favorevole, spingendo lo stesso esercito a cercare aiuto e appoggio dal vicino asiatico.

Questo potrebbe anche spiegare l’ambiguo comportamento degli Stati Uniti e di altre nazioni, le quali hanno condannato il colpo di stato e minacciato un intervento che sinora, però, non si è concretizzato. Ulteriori sanzioni servirebbero, infatti, per piegare solo ulteriormente il Myanmar e lo spingerebbero ancor più verso le porte aperte di Pechino, allontanandolo definitivamente dall’Occidente e dai suoi principi.

Questa contrapposizione rende difficile prendere decisioni definitive e ha portato ad una situazione di stallo, sulla quale il taciturno quanto ambizioso generale Hliang ha costruito attentamente la sua strategia per scalzare il governo civile e con la quale ora si trova in perfetta convivenza.  

La speranza è che la comunità internazionale non si arrenda e non abbandoni l’impresa di trovare una soluzione, come spesso purtroppo è accaduto in casi analoghi, e che il popolo birmano possa finalmente riconoscersi unito in una lotta per i diritti e la libertà e impedisca con la sua voce e le sue proteste che questo, seppur incompleto, esperimento democratico degli ultimi cinque anni appassisca del tutto.

Intanto si spera anche che la leader stessa del popolo non abbia perso la sua determinazione a lottare, come confermato peraltro dalle sue parole al momento dell’arresto, e che si dimostri la vera paladina della democrazia che tanto aveva acceso i cuori dell’Occidente in passato, tenace e saggia nel guidare con gradualità il suo Paese verso la libertà dal giogo militare.