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Volge al termine la giornata di incontri qui al Salone del Libro di Torino. Si può già respirare quell’aria stanca generata dai passi sincronizzati di migliaia di appassionati, in cerca dell’ultima intervista da seguire prima di ricongiungersi alla pioggia battente. Per concludere al meglio il nostro viaggio dentro l’iridescente selva letteraria, abbiamo deciso di dare una svolta musicale seguendo la presentazione di Cantautrici, l’ultima fatica di Alice Mammola (autrice, archivista e storica dell’arte), insieme a Giorgieness (Giorgia D’Eraclea) e Irene Buselli (in rappresentanza del collettivo Canta Fino a Dieci). Passato, presente e possibilmente futuro delle cantautrici in quell’industria musicale che troppo spesso le ha accantonate vicino agli oggetti smarriti.

Sono davvero contenta di poter presentare il libro insieme a due splendide cantautrici del panorama musicale italiano. Giorgieness, raccontaci di te, quando hai iniziato a scrivere canzoni?

G: Direi verso l’età di sette anni, non appena imparai i primi accordi alla chitarra, anche se la musica non rientrava ancora nei miei piani. A quindici anni fondai la mia prima band, e cominciammo a fare sul serio quattro anni dopo.

E immagino che avessi già riferimenti da cui trarre ispirazione…

G: Non nell’immediato, si è trattato di un processo graduale. Da piccola ascoltavo le Spice Girls e Britney Spears come tutti. Grazie al mio bassista Andrea De Poi ho affinato i miei ascolti con Björk e PJ Harvey, loro mi sono state di grande aiuto nella scrittura. Oggi mi rendo conto di ascoltare solamente artiste donne e poco altro, ma non per una scelta particolare.

Io stessa mi sono resa conto dalle mie ricerche di quante cantautrici abbiano fatto e continuino a fare la storia della musica. Irene, puoi raccontarci come nasce il collettivo Canto Fino a Dieci?

IS: Il collettivo nasce dall’idea di “contare” il numero delle cantautrici in occasione dei festival e nei roster delle case discografiche. In questo senso, il gender gap è tuttora spaventosamente alto. Come spesso accade, anche questo progetto è nato per caso, in occasione della pandemia; io insieme ad altre cantautrici abbiamo protestato contro lo stop prolungato del settore musicale, e sui giornali si è posto l’accento sul fatto che fossimo tutte donne, allontanando così l’attenzione dal problema principale. L’intento è quello di comprendere le ragioni di questo fenomeno e provare a dare un contributo affinché la situazione cambi.

Purtroppo la discriminazione e i pregiudizi contaminano da sempre anche la musica. In base alla vostra esperienza, quali sono le cause di questa forte disparità ancora presente nel settore?

G: Guarda, quando cominciai a fare musica nel 2011, nell’ambiente indipendente c’eravamo io, Maria Antonietta e Levante, poche altre. Con il primo disco feci circa 245 date, e inizialmente non mi ponevo ancora grandi interrogativi a riguardo. Con il tempo, ho maturato la convinzione che si tratti principalmente di un problema discografico. Oggi non mi vengono in mente tante cantautrici che possano riempire i palazzetti o portare grandi quantità di persone in un contesto come quello dei festival, forse solo Margherita Vicario o Ditonellapiaga, ma parlo principalmente della mia generazione. Tolte loro, è chiaro che chi organizza l’evento ci perderebbe a livello economico. Ciò che più mi fa rabbia è che dietro la discografia ci sono anche tante donne ai piani alti, e mi lascia attonita il fatto che neanche loro provino a fare qualcosa per svoltare la situazione.

Anche la promozione degli artisti è cambiata radicalmente rispetto al passato. Penso soprattutto ai social, che hanno fatto emergere un universo cantautorale femminile di cui altrimenti non si avrebbe avuto notizia tramite i canali di informazione tradizionali.

G: Purtroppo anche in questo caso non è tutto rosa e fiori. Crescere e fare numeri partendo dai social non è affatto semplice, specie dal punto di vista economico. Vi è l’ansia costante di pubblicare la storie, foto, video di quello che fai, dei concerti, delle canzoni, fino ad arrivare a un cortocircuito. Per sostenermi economicamente, ho già un lavoro al di fuori della musica, che già occupa gran parte del mio tempo, e non me ne rimane per realizzare il numero di contenuti social che richiedono le piattaforme. Per scrivere musica occorre vivere, fare esperienze, viaggiare, ma come posso farlo se quotidianamente devo pensare a cosa pubblicare su Instagram piuttosto che TikTok? Le case discografiche devono ricominciare a fare promozione, specialmente sulle artiste.

Oggi i progetti musicali non hanno più tempo per crescere

Oltretutto è evidente come oggi non ci sia più il tempo necessario per produrre musica di qualità rispetto a prima.

G: Oggi i progetti musicali non hanno più tempo di crescere. Una volta si dava il tempo agli artisti di provare e sperimentare sostenendoli economicamente, finché non avessero in mano un disco pronto per uscire, secondo i propri tempi. Oggi tutto questo è inconcepibile, neanche gli album hanno più un senso, siamo sommersi da singoli che escono a ripetizione con la data di scadenza stampata sopra, come una catena di montaggio. Spesso i grandi artisti sono gli ultimi ad ascoltare le loro canzoni, vengono presi un producer e cinque o sei autori a cui si chiede la hit in base alle tendenze italiane e internazionali, per poi confezionare un prodotto pronto per diventare virale sui social finché non perde la sua forza.

IS: Anche la voglia di credere e supportare gli artisti emergenti si è persa per strada. Non si può più pensare di poter mandare alle case discografiche un provino registrato con chitarra e voce. Serve una canzone già registrata e mixata da un produttore che possibilmente abbia degli agganci nelle alte sfere. Spesso rimane comunque un servizio fine a se stesso, perché non tutti i produttori hanno la voglia o il tempo di soffermarsi più di tanto su cosa vuole raccontare l’artista. Si limitano a eseguire il compitino, dopodichè arrivederci e grazie.

A proposito di soldi, molto spesso cantautori e cantautrici come voi hanno un secondo lavoro, nonostante abbiano già un seguito abbastanza importante e vadano in tour con molte date. Quanto è cambiato questo aspetto negli ultimi anni?

G: A mio avviso la pandemia ha segnato un punto di svolta. Prima del covid, pur con tanti sacrifici, riuscivo a mantenermi esclusivamente con la musica. Fare un passo indietro a causa di uno stop durato due anni non è stato affatto facile. Banalmente tanti locali dove si potevano organizzare date hanno chiuso, riducendo drasticamente il numero dei live e di conseguenza le entrate economiche degli artisti più piccoli.

Tornando al ruolo delle cantautrici in Italia, in che modo si può far conoscere al pubblico le proprie canzoni senza dover passare necessariamente dai social?

G: La risposta è molto semplice: il pubblico non verrà mai a cercarti senza prima ricevere degli input, che in questo caso sono le radio. E quindi torniamo al discorso delle case discografiche, in quanto sono loro a decidere chi produrre e chi passare in radio.

IS: La percezione che il pubblico sia sempre indipendente nel decidere cosa gli piace e cosa no, ma la realtà è un’altra: ciò che piace o che può piacere lo si sceglie in base a cosa si ha a disposizione.

In pratica chi ha la narrazione in mano ha il potere, in questo caso le radio.

IS: In radio passano sempre le stesse canzoni per via delle logiche di mercato, è difficile che il pubblico vada oltre i propri orizzonti musicali. Una canzone può piacere o meno in base a molti fattori. Tuttavia, il fatto di non essere abituati a determinati generi perché scartati dalle radio, risulta determinante all’appiattimento del gusto generale.

G: Occorre sfatare il mito che le piattaforme streaming abbiano aiutato gli artisti ad emergere. Sono sistemi chiusi con un loro algoritmo ben preciso, e se non rientri all’interno di determinati canoni, sei tagliato fuori.

Sempre a proposito delle quote rosa nella musica, come mai in Italia è così difficile trovare delle band tutte al femminile?

G: Forse perché è più facile litigare fra donne! Scherzi a parte, credo che il problema oggi riguardi le band in generale, uomini o donne che siano. Mi vengono in mente gli Zen Circus o i Ministri, hanno avuto il loro momento di gloria, se così si può chiamare, ma non sono diventate “cult”. In Italia funzionano di più i solisti, mentre all’estero è diverso, ci sono molti più progetti collettivi anche al femminile, penso alle Boygenius che stanno avendo grande successo ultimamente.