Una ricerca della società Glickon ha stimato che nella vita trascorriamo circa 90mila ore a lavorare: è la maggior parte del nostro tempo ed è fondamentale non viverlo male, perché incide significativamente sul benessere personale, a livello psicofisico e sociale. Le aziende hanno il dovere di curare il welfare, ma non tutte si impegnano a garantirlo perché è ancora molto radicata l’idea estremamente tossica che il lavoro non debba essere piacevole ma faticoso, altrimenti non ha valore. Il 15% degli adulti in età lavorativa presenta un disturbo mentale (fonte: OMS). Un’azienda che non presta attenzione al benessere dei dipendenti ed è portata avanti da persone debilitate, però, non può sperare nel successo visto che la sua principale forza sono le risorse umane. Ma come riconoscere un ambiente lavorativo disfunzionale? Ecco alcune red flags da non ignorare.
Tutto parte dalla leadership: esistono diversi tipi di manager tossici che rendono impossibile lo svolgimento dell’attività lavorativa perché dal profilo autoritario, narcisista, arrogante o insicuro. Con loro è impossibile comunicare o collaborare e il clima è sempre teso e soffocante; inoltre, è frequente che sfruttino la propria posizione di vantaggio per riversare la propria rabbia sui dipendenti e mortificarli, specialmente quando commettono errori. Quando si agisce, c’è sempre una probabilità di sbagliare e non è un dramma, eppure in alcuni titolari non esiste tolleranza verso gli errori: non ammettono incidenti di percorso, ma mettono in un angolo l’impiegato per ‘evitare che peggiori le cose’, provocando, in realtà, l’effetto contrario perché il dipendente non riesce a migliorarsi e a capire come evitare di ritrovarsi nella stessa situazione, perciò avrà meno fiducia nelle proprie capacità e sarà meno propenso ad agire e prendere iniziativa; potrebbe addirittura sentirsi spinto a dimettersi a causa della tensione, quindi rappresenta uno dei tanti motivi per cui un’azienda riceve molti licenziamenti e ha un elevato turnover. Gli altri aspetti che contribuiscono a far perdere il personale possono essere stipendi inadeguati, assenza di gratificazione, incapacità da parte del capo di individuare nei candidati le abilità richieste, comunicazione poco chiara o assenza di prospettive di crescita: per una persona che mantiene costantemente alto l’impegno, infatti, è notevolmente frustrante non ricevere gratificazioni. Restare sempre nella stessa posizione lavorativa non è per niente un buon segno perché probabilmente si lavora per un’azienda fortemente gerarchica e in cui non è possibile mettere a disposizione tutto il potenziale che si possiede. Alle persone dedite al lavoro, però, spesso sono richiesti sforzi maggiori rispetto a quelli dovuti: quando termina l’orario lavorativo, infatti, molti titolari hanno l’abitudine di continuare a contattare i dipendenti, che non staccano mai veramente e lavorano più ore. Di conseguenza, a causa della reperibilità costante non esiste più un confine tra la vita privata e quella lavorativa ed evitare il burnout diventa una vera e propria sfida.
Di contro, non esistono solo capi ma anche leader, in grado di guidare e ispirare il proprio team. Sono in genere titolari che non controllano ossessivamente lo svolgimento del lavoro, fidandosi dei dipendenti e delle loro capacità e rispettandone l’autonomia: il micromanagement è inesistente nella loro azienda e fa spazio a un team autonomo, motivato, produttivo e creativo perché libero di esprimersi. Proposte di idee e prospettive inedite, quindi, sono le benvenute e non innescano dinamiche competitive, ma attraverso il lavoro di squadra si uniscono i punti di vista e le forze per dar vita a nuovi progetti e miglioramenti. Ovviamente, quindi, esistono realtà in cui alzarsi la mattina per lavorare non è un sacrificio e questo ha un valore inestimabile per la salute mentale, uno degli argomenti tabù per eccellenza che negli ultimi anni sembra stia ricevendo una parvenza di attenzione: nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, infatti, il punto 3.4 si pone l’obiettivo di promuovere il benessere dell’intera collettività anche in ambito lavorativo, ma è solo un timidissimo passo.
Circa la metà dei lavoratori europei ritiene che lo stress sia comune nel luogo di lavoro e infatti è responsabile di circa la metà di tutti i giorni di lavoro persi. È giunto il momento di affrontare la questione con determinazione, nell’interesse sia dei nostri lavoratori che della nostra economia. Senza una forza lavoro sana, un’impresa non è in grado di realizzare il suo potenziale di produttività. Affrontare questa tendenza crescente è pertanto un imperativo sia sociale che economico. La nostra salute mentale sul lavoro è importante tanto quanto la nostra salute fisica.
Nicolas Schmit, commissario UE per il Lavoro e i diritti sociali
Nei fatti, in Italia la salute mentale è ancora gravemente sottovalutata e sempre meno finanziata, soprattutto rispetto ad altre nazioni ad alto reddito dell’UE che investono il 10% della spesa sanitaria a fronte del nostro irrisorio 3,4%: il rapporto del progetto ‘MORe‘ (Mental health Optimization of Resources), realizzato da Deloitte Consulting e Janssen Italia, non a caso stima che dovrebbe salire almeno al 5%, quindi dovrebbero essere aggiunti altri 2 miliardi. Tuttavia, è una stima al ribasso perché si ipotizza che nei prossimi tre anni la popolazione da assistere subisca un incremento tra il 15% e il 23%, non tenendo conto del 5% sommerso rappresentato dalla popolazione che non accede ai servizi di cura. Arginare l’avanzamento dei disagi mentali non è semplice, ma è possibile attraverso un lavoro di sinergia tra entità statali disposte a stanziare fondi per la sanità e datori di lavoro pronti a formarsi per garantire il benessere sul luogo di lavoro. ♦︎
Illustrazione di Viviana Furlani
Questo articolo nasce da una collaborazione tra NoSignal Magazine e Team Different