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A ottant’anni dall’uscita della prima traduzione italiana dell’Antologia di Spoon River, il sodalizio letterario fra i due autori è ancora sospeso tra mito e realtà

7 dicembre 1945. Con la sua inconfondibile calligrafia sghemba, Cesare Pavese annota sul suo diario tre iniziali: T., F., B. Sembrano solo tre innocue lettere. Ma non per lo scrittore. In esse, infatti, si nascondono i nomi delle uniche tre donne a cui abbia dedicato poesie, almeno fino a quel momento. Accanto a queste viene appuntata una triste constatazione, come un’ammissione di colpa. Tutte e tre hanno intuito che qualcosa nella vita di Pavese manca: lo spazio per una donna. Hanno letto le sue poesie, le hanno apprezzate, ma poi, quasi per gioco, gli hanno detto che gli sarebbero bastate, che non avrebbe avuto altro. Sotto ai loro nomi, Pavese aggiunge che «quel che è stato, sarà», alludendo al ripetersi ciclico e inevitabile del pessimismo di fondo che ormai lo ha persuaso del suo insuccesso con le donne. Ad aver espresso questo giudizio, sembra esserci anche lei, F., l’iniziale sbilenca e scolorita dietro la quale si cela uno dei suoi amori passati: si tratta di Fernanda Pivano.

Tra i due non si sa quando sia davvero finita, ciò che è certo è che sia iniziata con un libro, l’Antologia di Spoon River. È stato proprio Pavese, durante la supplenza al Liceo d’Azeglio di Torino, a far finire tra le mani della giovanissima Fernanda la raccolta di Edgar Lee Masters che cambierà la storia della letteratura americana in Italia: gliel’aveva portata, racconta la Pivano, un giorno che lei gli aveva chiesto quale fosse la differenza tra la letteratura inglese e quella americana. Qualche anno dopo la giovanissima Pivano pubblica la sua prima traduzione, sotto la guida di Pavese, con la casa editrice Einaudi: si tratta proprio dell’Antologia di Spoon River. Lui è già uno scrittore affermato, che lavora in una delle case editrici più importanti d’Italia; lei è una studentessa di buona famiglia che si è appena laureata, in Lettere, con una tesi su Moby Dick. Quando Pivano gli consegna il dattiloscritto appena terminato, la loro corrispondenza va avanti già da qualche tempo e Pavese non ha dubbi: non è più solo il talento della giovane traduttrice a incantarlo, ma un ardore più profondo. Inizia così un’amicizia, presto destinata a sfaldarsi e spezzare il cuore di Pavese due volte, a causa di fraintendimenti e due proposte di matrimonio respinte; ma è grazie alla fondamentale mediazione di Pavese che per Fernanda Pivano nasce un amore destinato a diventare la sua ragione di vita: quello per la letteratura americana.

Foto di Urizen_bl

L’«altrove» necessario

Quando Fernanda Pivano ricorda gli anni della prima scoperta del mondo americano, ne parla come di un amore a prima vista: a colpirla è il modo di scrivere di quegli autori che arrivano da lontano, che svuotano la lingua di epicità e la usano in maniera nuova, con uno stile scarno, diretto, che lascia disarmati di fronte alla verità della parola. Sono gettate in quegli anni fondamentali le basi per tutto quello che verrà dopo, durante la straordinaria carriera della traduttrice: quando negli anni Sessanta porterà la Beat Generation in Italia, e andrà a scovare gli autori, a intervistarli come fa con Kerouac e con Allen Ginsberg, e come aveva già fatto in precedenza con Hemingway. La accusano di esterofilia, ma Pivano legge e traduce. Non si ferma.

La ricerca di quell’altrove, è iniziata negli anni Trenta tra i banchi del Liceo d’Azeglio, grazie a Pavese. Risale al 1931 il primo approccio dello scrittore con le traduzioni, da Lewis a Joyce. Il mondo americano per Pavese è un richiamo irresistibile, che trasmette con la stessa intensità anche alla giovane Fernanda. La letteratura americana diventa, insomma, il suo amore proibito, osteggiato dalla mentalità del ventennio fascista. Di quegli anni Pavese scriverà solo più tardi nel ’48 in risposta alla rivista Aretusa che l’Italia del ventennio fascista era «estraniata, imbarbarita, calcificata, bisognava scuoterla, decongestionarla e riesporla a tutti i venti primaverili dell’Europa e del mondo».
Pavese fa ciò che ogni professore dovrebbe fare: scopre la passione di un’allieva e la incentiva. Hemingway, Fitzgerald, Whitman, Anderson: Pavese le procura i titoli e Fernanda li legge, in una vera e proprio educazione letteraria a colpi di contrabbando di libri illeciti. Gli autori americani scrivono di rivoluzione, di sesso, di antifascismo. Non sorprende quindi che la sua prima traduzione, che aveva già realizzato clandestinamente durante gli anni del D’Azeglio, la faccia finire in prigione: il tribunale fascista accusa lei ed Edgar Lee Masters di immoralità. Ma è un’attrazione inarrestabile. Gli autori che Pavese ha mostrato alla Pivano le danno la scossa: sembrano scuotere le fondamenta di quei valori borghesi che l’hanno cresciuta tenendola rinchiusa sotto a una campana di vetro. Per la Fernanda adolescente, l’America rappresenta un luogo ‘altro’, un altrove necessario da immaginare per sfuggire a quella realtà troppo stretta, fatta di confini invalicabili, soprattutto in tempi come quelli che stanno vivendo: tra nazionalismi, leggi razziali e guerra imminente.

Quando Norberto Bobbio farà da tramite facendo sì che si riaggancino i contatti tra Pavese e Pivano, all’inizio degli anni Quaranta, i due iniziano a scriversi, a vedersi, e ancora una volta a consigliarsi libri. Fanno giri in bicicletta e siedono sulle panchine del Lungo Po. Ma è evidente che per Pavese c’è da subito qualcosa di più. Tra di loro ci sono dieci anni d’età, quel tanto che basta a giustificare in alcune lettere il tono paternalistico di Pavese. Ma arriva un momento in cui i due superano il rapporto maestro-allieva. Pur continuando a darsi del Lei, le loro confidenze diventano più intime. Pavese le dà consigli, ma spesso si sbottona anche sul suo conto, con confessioni personali riguardanti anche la sua più antica nemica: la solitudine. «Cara Fern, la solitudine che lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e donando invece che ricevere. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene». Pavese la chiama con l’appellativo ‘gõgnin’, musetto. Osserva la giovane Pivano, studia i suoi modi. Sembra davvero conoscerla quando, in una delle tre poesie che le dedicherà, e che entreranno a far parte della seconda edizione della raccolta Lavorare stanca, scriverà un verso che riesce a racchiuderla: «tu vivi altrove». Un luogo, forse, quell’«altrove», che le aveva fatto conoscere proprio lui anni prima e che lei non aveva smesso di abitare.

Foto di Erkmaddy

T., B. e le altre

Quello che realmente sia accaduto tra i due scrittori, è un mistero che solo loro potranno custodire. Ciò che è certo è che Pavese le chiede di sposarla due volte. Segna due date, il 26 luglio 1940 e il 7 agosto del 1945, ma accanto mette due croci. Pavese aveva tentato anche di scherzarci su, come si legge nelle lettere che orbitano attorno a queste date, ma dietro quel tono sarcastico è impossibile non percepire un’amara tristezza. Nell’intervista realizzata da Marzullo alla fine degli anni Novanta per la trasmissione Rai ‘Sottovoce’, l’anziana Pivano ricorda Pavese con gli occhi lucidi: lo chiama «il mio maestro» e al tentativo del giornalista di carpire qualche altro segreto del loro rapporto lei chiude evasiva: «Lui si innamorava di donne cattive che lo facevano soffrire», dice con distacco, quasi inconsapevole che anche lei sia una di quelle donne, e sia finita sul suo diario, poi pubblicato sotto al titolo Il mestiere di vivere, insieme alle iniziali delle donne che lo avevano rifiutato.
Le altre due iniziali che compaiono nel diario, T. e B., rimandano a Tina Pizzardo e Bianca Garufi. La prima è la ‘donna dalla voce roca’, la destinataria delle più crude poesie di Lavorare stanca. La seconda è la collaboratrice romana con cui scriverà il romanzo pubblicato postumo a quattro mani Fuoco grande. Tra Tina, Fernanda e Bianca è sicuramente la matematica antifascista Tina Pizzardo la donna che più delle altre segnerà il rapporto di Pavese con l’amore: la sofferenza che ha provato per lei si ripercuoterà su tutte le altre donne, in quello che Pavese stesso definirà a malincuore una sorta di pattern, il ‘ritorno mitico’. La loro storia si svolge per alcuni anni, senza iniziare mai veramente: seguono due momenti, prima l’innamoramento non ricambiato, poi l’abbandono, che si rivelano essere una costante nella vita sentimentale dello scrittore. La sofferenza più grande avviene quando Tina gli dice qualcosa che Pavese avrebbe voluto non sentirsi dire: non l’ha sposato perché sa scrivere poesie ma non è buono per una donna. Pavese, intanto, per lei finisce in confino in Calabria. Quando ritorna scopre che la donna ha cessato di scrivergli lettere perché si è sposata con un altro. Dal tempo dell’addio alla donna dalla voce roca le donne che farà vivere nei suoi libri saranno tutte maltrattate. La donna è cagna, capra, lussuria eppure sempre indispensabile perché attaccamento alla vita. I personaggi femminili che nascono in quegli anni (da Concia nel Carcere a Rosanne nella Luna e i falò) risentiranno di questo disprezzo esasperato e a tratti misogino: tutte le donne diventeranno un puro frutto della carne.

Di sesso spesso Pavese allude nelle lettere con Fernanda Pivano. Quando lo scambio epistolare inizia a diventare più intenso Pavese non si esime dal darle consigli e osservarla. «Una ragazza che non conosca ancora l’amore – siamo franchi, il sesso – ha un segreto che nessuno, nemmeno lei, può penetrare», le scrive Pavese, arrivando addirittura ad affermare che la Pivano abbia «il terrore di attaccarsi a una creatura». «Ecco confermato che il suo shrinking non è un lezioso derivato sessuale della verginità ma una penosa confessione di debolezza, di paura che per lei amore voglia dire perdita delle staffe, tuffo nell’ignoto», le scrive Pavese in una lettera del 20 ottobre del 1940. A proposito di una relazione clandestina scoperta all’Einaudi tra due colleghi, in una lettera del 9 maggio 1943 Pavese commenta: «È proprio vero che il sesso è la rovina della vita. Ma è anche una sua grande consolazione. Fernanda, apprezzi il sesso che è quello che suscita le lettere e le arti e fornisce di cittadini la patria. Lo apprezzi. Mi scriva se lo apprezza».

Non c’è accenno di tenerezze tra i due, ma solo di riservate «carezze sul gomito», come amava scriverle Pavese al fondo di ogni epistola. È sempre Pavese a suggerirle anche, per alleviare le inquietudini della giovane traduttrice, di non scoraggiarsi ma anzi farsi «violare dal primo atleta che le capita». Il tono di Pavese, a tratti ironico, nasconde un’agitazione. Le risposte della Pivano, talvolta elusive, spesso franche si rivolgono, con una rabbia inespressa, verso la sua famiglia: proprio a causa della sua educazione austera, la Pivano gli confessa che la sua sessualità che tarda ad arrivare è vissuta dentro di sé come un fardello pesante. Sarà anche questa intima rivendicazione di libertà che la farà scendere in prima fila negli anni ’60, durante la rivoluzione sessuale.

«You, wind of march»

Quando Pavese si traferisce a Roma, per lavorare alla sede dell’Einaudi della capitale, la corrispondenza epistolare con la Pivano cessa improvvisamente. Qualche anno dopo lei si sposa con un designer di successo, Ettore Sottsass: è forse lui uno di quegli uomini che, come le suggeriva Pavese in una lettera, sarebbero stati in grado di «tenerle testa»?
Negli ultimi cinque anni romani, Pavese scrive forsennatamente fin tanto da sentirsi «come un fucile sparato» (sono pubblicati in questi anni La casa in collina e La luna e i falò) e combatte contro il suo «vizio assurdo», il suo istinto atavico al suicidio che lo attanaglia fin dalla giovane età. È solo un adolescente quando resta profondamente turbato dal suicidio di Baraldi, il suo compagno di scuola che insieme alla fidanzata si dà la morte un colpo di rivoltella.

Nel marzo del 1950 si compie l’ultima illusione: avviene infatti l’incontro con Constance Dowling, la giovane attrice americana a cui sono dedicate le dieci poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Lei è venuta in Italia in cerca di successo e Pavese cerca di farglielo ottenere, mettendola in contatto con sceneggiatori esordienti della scena romana minore dell’epoca. Ancora una volta Pavese senza accorgersene si comporta come il Virgilio dantesco, quando è definito ‘lampadoforo’, capace cioè di illuminare il cammino degli altri ma lasciando se stesso al buio: non si accorge che Constance Dowling è in cerca solo di un po’ di popolarità. Ha gli occhi felici in una fotografia che mostra a Lajolo, caro amico e poi noto biografo pavesiano, con la donna americana, che chiama scherzosamente ‘allodola dall’America’. Ma è una felicità che dura per un tempo breve, lo spazio di una stagione, fino al racconto finale: «È scappata di notte dal mio letto nell’albergo di Roma ed è andata nel letto di un altro». Anche con la donna con cui sperava di vincere il ricordo delle altre non c’è speranza di felicità: il vento di marzo portatore di speranza con cui si apriva una delle poesie della sua ultima e struggente raccolta non si è rivelato altro che un vaneggiamento destinato a dissolversi col passare della stagione. Nemmeno il premio Strega, assegnatogli durante l’estate di quello stesso anno per il romanzo La bella estate nel giugno 1950 sembra in grado di alleviare la sua depressione, che incurata per anni, è sempre più forte. «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla»: è l’ultimo Pavese a parlare, nel suo diario, quello più vero. Nelle ultime telefonate che farà la notte del 26 agosto 1950, prima di darsi la morte con l’ingestione di sonniferi nella camera in cui soggiornava nell’hotel Roma in piazza Carlo Felice, c’è anche Fernanda. Non si sentivano da anni. Le chiede se ha voglia di vederlo, ma lei declina l’invito: il marito ha l’influenza e non lo può lasciare da solo. Anche nel momento più tragico della sua vita Pavese trova conforto negli autori americani:‘ripeness is all’, ‘la maturità è tutto’ aveva scritto nell’epigrafe di La luna e i falò, riprendendo la frase finale dello scrittore originario di Pasadena, F. O. Mathiessen, che si è tolto la vita qualche mese prima di lui. La morale di Pavese, pur piegata dal dolore della solitudine, non sembra mancare di senso logico: ha scritto, si è scontrato con l’amore, ma ha in fondo ha conosciuto la vita. ♦︎