Come Match Point, ma meno di Match Point

Un’aria da L’elisir d’amore di Donizzetti accompagna il movimento di una palla da tennis da un campo all’altro. Racchette e giocatori rimangono fuori dall’inquadratura e forse nemmeno esistono, in un ribaltamento completo della scena finale di Blow Up (1966), in cui Michelangelo Antonioni faceva giocare dei mimi con una pallina immaginaria. Mentre la voce fuoricampo di Chris, personaggio principale di Match Point (2005), giovane irlandese, che si è affrancato dalla miseria grazie al tennis, riflette sul ruolo predominante della fortuna rispetto a quello del talento e su come tutto nella vita sfugga al nostro controllo, a un tratto la palla colpisce il nastro della rete e rimane sospesa senza cadere da nessuna delle due parti in un fermo immagine, che scompare con una dissolvenza al nero.

«Per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no, e allora si perde». Così conclude il suo pensiero, nella prima scena del film, l’ex giocatore professionista, che in una Londra elitaria fatta di serate all’opera, gallerie d’arte e alta finanza, diventerà di scena in scena arrampicatore sociale, uomo d’affari, poi fedifrago e infine assassino. Woody Allen nei minuti iniziali pone le premesse alle pesanti conclusioni a cui giunge nelle successive due ore, in un noir che è limpido e crudele teorema sul Caso: poiché la fortuna conta più del talento e dei meriti, ma anche delle colpe degli uomini, nella vita non c’è giustizia né Dio. Chi è colpevole non viene punito, anzi: superato un primo momento di paura e sensi di colpa, prospera più di prima, come Allen aveva già mostrato in Crimini e misfatti (1989), considerato dalla critica una delle sue migliori prove e antecedente spirituale di Match Point, con cui ha in comune snodi della trama ed echi dostoevskiani con rimandi dichiarati a Delitto e castigo, sebbene, in entrambi i casi, i film approdino a conclusioni opposte a quelle del romanzo. Jonathan Rhys Meyers, un Chris che è rielaborazione in chiave moderna di Rodion Romanovič Raskol’nikov, e Scarlett Johansson sono gli interpreti principali della sfiducia di Allen verso il mondo, in una pellicola cupa, ansiogena, dove non esiste amore, né redenzione, né finale consolatorio che sollevi lo spettatore dal disagio di una mancata catarsi. Nonostante questo, o in virtù di questo, uno dei maggiori incassi del regista.

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Fotogramma di Match Point © 2005 Woody Allen/BBC Films, Thema Production, Jada Productions

Sono anni che Woody Allen, da amante del jazz, si diletta in variazioni sui temi a lui cari e con il suo ultimo lavoro, Coup de Chance, primo film che gira in lingua francese, torna a ragionare sul ruolo della fortuna nelle nostre esistenze, senza però quegli aspetti più oscuri, legati a dilemmi morali. Ma se un tempo le sue pellicole erano o capolavori della storia del cinema oppure, quando inciampavano nel nastro della rete, cadevano comunque oltre, rivelandosi dei buoni film, ultimamente il rovescio del regista si è fatto più debole e qualche pallina rimane nella sua metà campo. 

Cinquanta film scritti e diretti in 54 anni di carriera. Il ritmo di una mitraglia, lo stacanovismo di uno schiacciasassi. Ma in ogni uomo c’è una dose di energia creativa che non può essere infinita, a maggior ragione in un artista all’aurora dei novant’anni, soprattutto se ci ha già dato tanto. E così come non possiamo chiedergli di essere di nuovo giovane, non possiamo pretendere ci regali altri Io e Annie (1977), né che vinca altri quattro premi Oscar.

L’inizio di Coup de Chance è quello della classica commedia romantica in puro stile Allen. Fanny Moreau (Lou de Laâge) è una giovane donna che lavora in una casa d’aste. Alain (Niels Schneider) è uno scrittore che la riconosce dopo anni, incontrandola per caso su un boulevard di Parigi. Ai tempi in cui lui era segretamente innamorato di lei, tutti e due frequentavano un liceo francese a New York. Woody Allen non resiste e, per quanto irrilevante ai fini della trama, anche qui trova modo di citare con tenerezza la sua città. Alle spalle di entrambi delusioni e divorzi. Alain è solo; lei ora è al secondo matrimonio, moglie trofeo di Jean (Melvil Poupaud), un facoltoso uomo d’affari che lei crede di amare. Il marito parrebbe adorarla, ma la tratta alla stregua di un oggetto prezioso. In realtà è un imbroglione parvenu, per certi aspetti un negativo fotografico del protagonista di Match Point. Si è introdotto nella haute socièté parigina e nasconde l’assassinio di un socio in affari. Alain e Fanny, una Parigi autunnale, le passeggiate nella pausa pranzo di lei, lui, che, in una soffitta troppo ben arredata per essere considerata bohémien, sta finendo di scrivere – a mano, ovviamente – il suo romanzo sull’importanza del Caso e dell’avere fortuna. Un tempo rubato in un’apparente sospensione della vita reale. La gioia di riconoscersi e appartenersi, ma mai senza inquietudini. Jean nota che Fanny è diventata distratta, più assente, solitaria. Lei gli sorride e sopporta fastidiosi impegni sociali, che ormai le pesano. Una chiamata sul cellulare della moglie esaspera i sospetti che erano già in lui. Jean si rivolge così a un investigatore privato e poi a due sicari, risolvendo in breve il problema a modo suo e credendo di essersi riappropriato dell’esistenza della moglie. Incapace di immaginare la realtà, la donna nasconde il dolore per una scomparsa che crede dovuta alla volontaria fuga di un amante ricredutosi. Sarà sua madre (Valérie Lemercier), appassionata dei gialli di Simenon, a intuire la verità e a suggerirgliela, rischiando la vita, poiché il genero ora sa che lei sa.

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Fotogramma di Coup de Chance © 2023 Woody Allen/Dippermouth

Il nodo gordiano della vicenda non è sciolto dagli uomini, non dalla giustizia terrena, tantomeno da quella divina. È reciso dal Caso con un coup de théâtre, che l’autore deus ex machina sceglie di rendere scopertamente assurdo e che, in modo sbrigativo, dà una parvenza di equilibrio, punendo – sì – un malvagio, ma con l’accidentalità con la quale avrebbe potuto stroncare la vita di un qualsiasi altro innocente che si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Oggi parte della critica vede in Coup de Chance, una maggiore apertura nell’abbracciare l’esistenza, come se la visione di fondo qui fosse meno amara rispetto ad altre opere analoghe di Allen. Può essere, ma non so fino a che punto: il giovane scrittore, che sostiene come nascere ed essere vivi equivalga ad aver già vinto una lotteria cosmica, dopo nemmeno un’ora di film muore fuori scena, quasi fosse un personaggio secondario o come in una tragedia greca. Per risolvere l’indispensabile cambio di protagonista nell’ultimo terzo della vicenda, il film prende una piega hitchcockiana, in una dinamica che ricorda un po’ Psycho (1960). E potrebbe non essere un caso che nella pellicola si veda di sfuggita un cofanetto dei film del ‘Maestro della Suspense’.

Caccia e fucili da caccia, casa d’aste e gallerie d’arte, relazioni extraconiugali e omicidi: citazioni, situazioni e meccanismi che in Coup de Chance richiamano altre opere di Allen e che solo chi le conosce può cogliere e apprezzare o, al contrario, percepire come spudorato riciclo. L’autore ritrae una borghesia rintanata in case lussuose, ma impersonali, che rispondono a cliché televisivi, un mondo superficiale, decadente e talvolta privo di valori al di fuori del denaro. 

Fanny, il nome della protagonista, è forse un riferimento all’omonimo romanzo di Feydeau, che condivide con Madame Bovary il tema dell’adulterio borghese e l’anno di  pubblicazione in Francia; il cognome, invece, è probabilmente un omaggio alla grande attrice Jeanne Moreau. Alain è un personaggio appena sbozzato, ha lo spessore di chi è destinato a durare poco, con l’unica funzione di mettere in crisi un matrimonio, per poi servire riscaldate le consuete riflessioni sul Caso e la Fortuna e infine sparire. Il suo pregio maggiore è forse quello di ricordare alla lontana l’Owen Wilson di Midnight in Paris (2011). Jean è l’uomo che non si affida alla fortuna, se la crea. Non solo è l’ homo faber fortunae suae, come parrebbe esser concesso esclusivamente ai potenti senza scrupoli, capaci di manipolare gli eventi a proprio favore, ma prova a controllare anche le vite degli altri, così come fa con i trenini elettrici del gigantesco plastico, al quale ha riservato con infantile entusiasmo un’intera stanza del suo appartamento.

Quale ruolo avrebbe scelto Woody Allen se avesse interpretato una parte in Coup de Chance? Probabilmente Fanny avrebbe avuto un padre, che avrebbe indagato sul passato del proprio genero e non una madre, che nell’aspetto pare la copia di una insostituibile Diane Keaton. Difficile dire se alcuni personaggi risultino a tratti stereotipati per un’involontaria carenza nella caratterizzazione o per una scelta, che riduce a caricatura quella società iper-conformista, in cui anche uno scrittore si ritrova in bocca frasi da Baci Perugina, regala rose da tre euro, libri di poesie, per coincidenza di nuovo da tre euro, e la moglie annoiata di un cinico arricchito si scioglie, come forse farebbe una ragazzina americana di fronte ai versi di un poeta che in Francia si studia alle medie. 

Indubbiamente mancano quelle battute memorabili, talmente comiche e iconiche da diventare aforismi citati ancora oggi e quegli scambi dialogici brillanti, che sono sempre stati una delle sue cifre stilistiche. La parabola tragica è, a un tempo, perfetta e prevedibile, come un orologio, non fosse per l’epilogo, un’amara burla, che incrocia il destino di Jean con quello della suocera, lasciando interdetti per la rapidità con cui tutto si chiude. La messa in scena è funzionale, ma non brillante, nel suo minimalismo agli antipodi rispetto alle scelte di altri grandi vecchi come Martin Scorsese e Ridley Scott, che nel 2023 hanno portato sugli schermi Killers of the Flower Moon e Napoleon. Una regia pacata, abbastanza convenzionale, che mostra a favore di telecamera anche etichette di champagne e marche di vetture. 

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Fotogramma di Coup de Chance © 2023 Woody Allen/Dippermouth

Vittorio Storaro, che dal 2016 ha collaborato esclusivamente con Allen come direttore della fotografia nei suoi ultimi cinque film, illumina una Parigi che non è certo quella delle banlieue, non è neanche più quella magica di Tutti dicono I Love You (1996), né quella notturna e poetica di Midnight in Paris, ma è una città un po’ idealizzata, un po’ da cartolina. Allen, per quanto si sforzi di essere europeo, a volte fa scelte da turista. La luce cambia nell’arco del racconto cinematografico: le scene con Jean virano sul blu e i toni freddi, mentre gli interni e gli esterni che Fanny condivide con Alain sono sospesi in riflessi solari, caldi come una tazza di tè, che lo spettatore beve ascoltando una scelta di brani jazz, curata come sempre dal regista.

Tra critica e pubblico c’è chi accoglie anche quest’opera del maestro – probabilmente l’ultima – con le lacrime agli occhi, riconoscendovi ancora un grande film e chi si dice deluso, ma non sorpreso, dall’ennesima conferma della discesa ineludibile di chi continua a proporsi pur non avendo più nulla da dire e parla solo ai suoi affezionati, che, nella loro visione distorta, lo acclamerebbero in ogni caso. «Se avessi avuto i 15 milioni di euro che è costato l’ultimo film di Woody Allen, penso che sarei riuscita a fare meglio». Così la voce di Lory Del Santo tra quelle di cinefili, appassionati e grandi nomi della critica. Ora, Coup de Chance non l’avrà entusiasmata, ma l’ex valletta e showgirl non brilla certo per autoconsapevolezza, a meno che The Lady non sia stato lo scherzo riuscitissimo di una regista e sceneggiatrice geniale, che negli anni ci ha tenuti nascosti competenza e buon gusto.

A essere obiettivi, Coup de Chance non rappresenta una pagina memorabile nella sterminata filmografia di Woody Allen. Non può reggere il confronto con quelli dei tempi d’oro, ma chi lo reggerebbe? Mai più lo vedremo come goffo dittatore in un paese di fantasia, né scendere agli inferi per un colloquio con Satana o nella esilarante parodia di Guerra e Pace oppure nei panni di uno spermatozoo impaurito. È vero, ormai ha perso gran parte della sua incantevole brillantezza, la fantasia paradossale, il ritmo e l’ironia dissacrante e assurda dei suoi dialoghi migliori e forse anche il coraggio della nostalgia. Ma un uomo per il quale, dopo 54 anni di lavoro, la vita e il cinema si sono fusi indissolubilmente, non può concepire l’esistenza dell’una senza l’altro. E anche per alcuni di noi è impensabile un anno senza un suo nuovo film. Come un Natale senza il maglione che la nonna ha sempre fatto per te, ogni volta con maggior fatica, magari della misura sbagliata, con un filo di lana di anno in anno più grosso e del colore che le è rimasto in casa, perché ormai non esce più.

Talento o fortuna? Se chiedete a lui qual è più importante, vi risponderà la seconda. Eppure sappiamo che di talento ne ha avuto tanto. Non so quanto gliene rimanga, ma per moltissimi anni la fortuna è stata soprattutto nostra. ♦︎

Guido Giuliano
Sono nato a Torino nel 2000. Mi sono laureato in lettere con una tesi sulle trasposizioni cinematografiche dei drammi shakespeariani e ho conseguito un master in tecniche della narrazione presso la Scuola Holden. Quando non basta scriverlo, lo disegno, lo fotografo o lo filmo.

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