Skip to main content

Aveva la schiuma alla bocca e gli occhi sbarrati, fissi su un vuoto senza nome.
Cristo, pensai, l’aveva fatto per davvero.
Il cortile si era ridotto a un corpo, relegato a un quadrato d’ombra. Eppure, attorno ad esso tutto continuava a muoversi: le piante di rosmarino nei vasi sbeccati, le erbacce cresciute tra le piastrelle a mosaico del pavimento, il bordo sfilacciato dell’ombrellone che s’incurvava sulle sedie di plastica indurite dal sole. Ero io a essere rimasta ferma. La verità era un luogo che non lasciava spazio all’interpretazione: Dina era morta.

La osservai a lungo, in silenzio, le mani nella tasca della salopette e la stessa scettica compassione che serbavo dentro di me, ogni volta che passavo davanti alla madonna sotto la teca di vetro. Anche il volto di Dina era inespressivo, come la testa ricurva del feticcio in terracotta, che mia mamma teneva sul centrino stinto della specchiera. Entrambe attorno al collo avevano qualcosa: il rosario slargato di una era il collare di pelle dell’altra, ornamenti macabri di effigi senza vita.
Eppure, con lo sguardo, non smettevo di accertarmene. Come poteva essere ancora lì, davanti a me, ma non esistere più? Le zampe immobili, i polpastrelli consumati, la pelle rosea vicino alle mammelle: di lei erano rimaste solo parti scomposte che la mia mente si rifiutava di mettere insieme. L’immagine unica che la mia memoria aveva prodotto di lei era stata sostituita da quella visione, tanto concreta da bloccare ogni tentativo della mia immaginazione di sostituirla con le altre (Dina che scodinzola, Dina che abbaia, Dina che gratta la porta), tratte dal repertorio di ricordi che la mia mente aveva catalogato negli anni. Quasi dieci, da quando ci eravamo trasferiti lì.

Lui diceva che la campagna ci avrebbe fatto bene. La campagna si era rivelata solo essere un luogo in cui tante cose potevano accadere, senza che nessuno se ne accorgesse. A mia madre aveva fatto smettere di avere voglia di lottare. A me aveva insegnato cosa significasse voler scappare via. Solo a mia sorella, invece, e alle sue avventure, sembrava aver giovato. Tutti dicevano che era troppo piccola per capire. Giocava al tappo di sughero con i gatti, inseguiva nei rovi le lucertole. A volte si allontanava fino al passaggio a livello, una sbarra bianca e nera, nella campagna gialla. La vedevo dalla finestra: restava per ore seduta sui bordi del canale, a guardare le rotaie e gli stormi di corvi che si levavano in aria, ogni volta che passavano i treni.
«Dove vanno?», mi aveva chiesto un giorno, una volta rientrata in casa.
«Lontano da qui».

Stavo preparando la cartella quando, qualche settimana dopo il trasloco, era sgattaiolata nel mio letto, in preda a una strana eccitazione. Aveva fatto un sogno. Era iniziato che camminava per casa, stava andando nella camera dei nostri genitori. Aveva aperto la porta, che aveva emesso un cigolio così acuto che aveva temuto di svegliarli. Invece, ognuno dal proprio lato del letto, erano abbandonati a un sonno quieto, mortifero. Mi aveva raccontato di aver raggiunto il capezzale in punta di piedi, sulle tavole di legno consunto, fino ad arrivare a vederlo bene: il naso aquilino purulento che spuntava dalla trapunta, il corpo rannicchiato in posizione fetale. Visto così, nostro padre non assomigliava all’uomo che sparava ai corvi: non faceva più paura. Come poteva essere la stessa persona, ma essere così diverso? Lo sguardo di mia sorella era fermo su quell’immagine, che non era esistita mai nella realtà.
Nell’atmosfera del sogno, diceva mia sorella, tutto era semplice. Aveva aperto il cassetto accanto al comodino, sapendo già cosa avrebbe trovato. Era lì, sul fondo scuro del legno poroso, vicino a un’immaginetta di un santo. Era storta e immobile, ma vibrava di una inquietante volontà, futura, invisibile ma già contenuta dentro al grilletto carico. E pensare che era a pochi centimetri dalla punta delle sue dita. La sgridava sempre perché se le mangiava fino a farsele sanguinare. Non che gli importasse, ma poi il sangue macchiava i vestiti e avrebbe dovuto cucirgliene di nuovi.

L’aveva presa in mano. La pelle che rivestiva l’impugnatura era lacera. Pesava. Non c’era la sicura, sarebbe bastato premere un colpo secco, dritto sulla tempia. Nel sogno, mi aveva detto, era coraggiosa. Di un coraggio che, nella realtà, non pensava di avere.
«E quindi?», le sussurrai, «L’hai fatto?»
Lei mi guardò per qualche istante, negli occhi il fastidio di chi cerca di scacciare una mosca, senza riuscire a prenderla.
Mi disse solo: «Sì. Nel sogno, l’ho fatto».
Avevo provato per un secondo a immaginarmi la scena: il cervello di nostro padre che schizza contro la testiera del letto, nostra madre che si sveglia, preme l’interruttore della luce e inizia ad urlare.
Ma in quel momento mi sfuggivano i dettagli, che avrei voluto vedere, (la consistenza della fibra dermica che si spappola come una fragola sotto la ruota di una macchina, l’orrore sul volto di mia madre). Chissà se quel fatto fosse riuscito a strapparle una reazione o se avesse reagito, come ormai era solita, con monosillabi di indifferenza. In ogni caso, in quel momento, immaginare mi era impossibile, e ogni tentativo di dare verità alla scena si sfaldava in grigi cumuli di fumo che annebbiavano la mia esigenza di vedere.
Tutto ciò che sapevo era che Dina non si muoveva. Le gengive rossastre scoperte lasciavano intravedere una sfilza di denti appuntiti, un tempo minacciosi, ma adesso innocenti.
Una cagna, era così che la chiamava lui.

Forse l’aveva sempre odiata, anche se era lui ad averla trovata una sera e aver deciso di tenerla. Un meticcio di tre mesi, abbandonato sul ciglio della strada. Ad avermelo fatto credere era il modo in cui l’avevo visto accarezzarla sul muso una sera, mentre le preparava il pastone con gli avanzi. Le aveva messo una mano in mezzo alle orecchie, in quella che sembrava a tutti gli effetti una carezza: qualcosa che con noi non aveva mai fatto. Ero dietro lo stipite della porta quando urtai un ninnolo in porcellana. Mio padre si accorse di essere visto: «E tu perché sei ancora sveglia?», mi chiamò.
La situazione era precipitata però qualche tempo dopo. Mio padre stava cucendo, Dina che dormiva sotto la sua sedia. Io stavo tagliando altro tessuto, da passargli: era una consegna per un cliente importante e il lavoro era ancora lungo. Nella tavernetta c’era un angolo con tutte le sue creazioni. Prima di andare a letto chiudeva tutto a chiave, anche noi potevamo entrare nello studio solo quando anche lui era presente. Custodiva quelle creazioni, ricami, vestiti, oggetti, bambole con un riserbo estremo. Quella serata dava pioggia. E quando iniziò a venire giù, prima a gocce fini, poi sempre più forti, contro le finestre, scovai con la coda dell’occhio Dina rizzare le orecchie. All’improvviso, tuonò: Dina non aveva mai sentito un tuono prima di quel momento.

La reazione che ne seguì cambiò tutto: Dina iniziò a correre per l’atelier, ma non solo. Tutto ciò che trovava a portata di morso lo acciuffava, scuotendo la testa all’impazzata, emettendo versi che non dimenticherò mai. Anche la bambola di pezza sulla madia. Era una bambola rotta, vecchia, consunta. Nessuno di noi aveva mai saputo da dove arrivasse, se mio padre ci tenesse o cosa. Quella sera lo seppi. Mio padre e Dina avevano iniziato a tirarsi la bambola, uno da un lato e l’altra dall’altro. Era una lotta animale, fatta di ringhi, male parole, schiaffi e morsi. Ma Dina non la mollava, il morso serrato sul corpo di pezza marrone della bambola. La forza di mio padre prevalse e nell’impeto d’ira il corpo della bambola si ruppe. Le cuciture saltarono via in uno strappo letale. Quando Dina staccò il muso dal corpo di pezza e l’ovatta cominciò ad uscire, mio padre restò fermo, gli occhi spalancati come non glieli avevo mai visti prima. Anche qualcosa dentro di lui, di molto lontano, doveva essersi lacerato. Le sue cuciture si erano squarciate e avevano fatto fuoriuscire la sua consistenza vera, che non era fatta di ovatta.

Dina zoppicò per una settimana. E non bastò: non c’era più azione che Dina potesse compiere che non suscitasse in lui una reazione molto violenta, di grande disappunto. Che Dina dormisse, fosse sveglia o abbaiasse ai corvi che si posavano sulla staccionata: non c’era momento in cui non trovasse la giusta scusa per vessarla.
C’era da aspettarselo, erano giorni che lo diceva: «Se non la smette, la ammazzo». Ma come, come poteva averlo fatto davvero?
Quando avevo udito lo sparo, mi ero ricordata che era domenica. Mia madre stava guardando la messa sul primo canale e intanto stava cucendo, il piede che batteva il pedale della Singer a un ritmo regolare; mia sorella era andata a giocare nei campi; io ero seduta al tavolo con un coltello in mano. Le due metà dell’albicocca che avevo appena inciso stavano roteando goffamente sulla tovaglia cerata, quando successe.
Mia madre si era voltata di scatto. Ci eravamo soltanto guardate, per un lunghissimo istante di vuoto. Entrambe sapevamo.

Pensavo dicesse qualcosa. Forse voleva. Il solco sulla fronte mi suggeriva che stava lottando con due pensieri in contrasto tra loro. Ma tacque. Il silenzio era diventato la sua risposta a ogni situazione.
Ritornó ai suoi lavori. Ne stava facendo un’altra e la bambola era quasi finita, mancavano solo un po’ di ovatta e le ultime cuciture. Forse lei ci sperava ancora: che bastassero alcune cuciture e sarebbe tornato tutto come prima. Non poteva immaginare che gli squarci erano troppo grandi per rimetterli insieme. E di chissà quale natura quelli nel cuore di mio padre. Riprese a guardare la televisione, senza controllare le mani che si muovevano da sole, in un gesto imparato a memoria, e inserivano il filo nell’asola ovale. Il filo ci scivolò dentro e lei lo sapeva, si fidava delle sue mani, ma non l’aveva nemmeno visto entrare. Iniziò a cucire le due estremità assieme, l’ago che penetrava nel tessuto in un movimento violento e continuo. Doveva essere successo così. Non dovevo essere nata in un modo molto diverso.

Fu un istinto. Non era mai successo prima, da quando l’avevo scoperto, portai una mano al ventre. Ebbi paura che anche io, in quel momento, mi sarei potuta scucire, squarciare, rompere. Erano quasi tre mesi che non sanguinavo. Forse il parto non doveva essere molto diverso da questo: le mie cuciture sarebbero saltate via, mi sarei spaccata, avrei scoperto che cosa avevo dentro, di che cosa ero fatta

«Quindi che vuoi fare?», mi aveva chiesto mia sorella quando lo scoprii. Era l’unica che lo sapeva, anche se io avevo già preso la mia decisione: non ero ancora pronta per scucirmi.
Quando ero scesa, doveva essere già andato via. Di mio padre non c’era alcuna traccia. Mi venne un impeto strano. Tutt’a un tratto avrei voluto andare a prendere la pistola nel suo cassetto, trovarlo, puntargliela alla tempia. Avrei avuto il coraggio di farlo?
In quel momento comparve mia sorella.
Aveva la pistola ancora in mano. ♦︎