Dispersione
A un certo punto della storia il nostro mondo è diventato estremamente enigmatico e incomprensibile, se non addirittura irriconoscibile. Non è possibile individuare il momento con esattezza, ma possiamo gettare l’ancora nella modernità, quando tutte le certezze della civiltà occidentale hanno incominciato a sprofondare nel mare magnum delle fragili cose umane destinate a esaurirsi e perdere valore poco alla volta, non per forza a causa di scoperte o progressi, ma anche soltanto per effetto del tempo che spesso rende obsoleto anche ciò che sembra essere intramontabile. Nessuna verità è stata più motivo di sicurezza per l’uomo che si ritrovato in un tempo colpito da ondate di relativismo che ogni volta che si ritiravano e tornavano a infrangersi sulla società, acquisivano sempre più energia e hanno portato a una dispersione che ha fatto colare a picco ogni suo punto di riferimento, e inevitabilmente ha scosso e frammentato la sua interiorità. Tuttavia, è pur sempre un individuo nuovo che, trovandosi in crisi dopo aver tagliato il cordone ombelicale con la tradizione, prova a comprendere il suo tempo dissoluto e a vivere nonostante il profondo disagio che ha saputo interpretare magistralmente Pirandello nel suo Mattia Pascal.
Siamo nel dodicesimo capitolo del romanzo e Anselmo Paleari, il proprietario della casa in cui alloggia il protagonista, propone al Pascal di andare a vedere uno spettacolo teatrale di marionette. Sarà rappresentata l’Elettra di Sofocle, una tragedia capace di turbare particolarmente ma in modo diverso a seconda dei tempi in cui è messa in scena. La trama è semplice: Clitennestra e il suo amante vogliono spodestare Agamennone e lo uccidono non appena rientra dalla guerra di Troia; i figli Elettra e Oreste, quindi, vogliono vendicare il padre riservando a entrambi la stessa sorte. Si tratta del dramma della cecità dell’odio che provoca un effetto domino e fa avvertire tutto il peso dei valori a cui si presta fede. A Paleari, quindi, sorge una domanda: durante lo spettacolo, cosa succederebbe se nel momento di maggiore pathos il cielo di carta del teatro si strappasse? Sembrerebbe un banale imprevisto, ma Oreste, a dire il vero, rimarrebbe sbigottito. La sua attenzione sarebbe catturata da quell’unica fessura in grado di squarciare il buio nella scena e illuminarla: diventa lo spartiacque tra la tragedia antica e quella moderna, il cambiamento, la novità. Il matricida irremovibile, mosso dalla necessità dell’azione della vendetta, diventa un Amleto che improvvisamente è aggredito da un dissidio interiore: davanti alla realtà che si manifesta violentemente, non può che smarrirsi in un primo momento, poi fermarsi a osservarla e interrogarsi. Non agisce più con convinzione ma in lui nascono finalmente i dubbi.
Non si tratta semplicemente di ritrovare la ragione. Il buco nel cielo di carta è molto di più: segna l’avvento della crisi dell’uomo contemporaneo, quella che in molti credono appartenga solo a noi giovani e invece interessa tutta un’epoca. Siamo tutti un Oreste che non è più disposto a uccidere la madre solo perché deve agire in nome di un principio. Piuttosto, alla comodità delle convinzioni preferisce essere Amleto e abbracciare il tormento; si lascia alle spalle la realtà ottusa e fallace dei punti esclamativi e ne riconosce una nuova, sfuggente, troppo vasta per essere determinata e in cui nessuna affermazione è mai vera per tutti, eppure è autentica.
Se niente è più sicuro, se ci stiamo lasciando alle spalle una tradizione che non ha più nulla da offrire e di cui ci resta poco o niente, eppure spingendoci al di là dello strappo ci rendiamo conto che il futuro è confuso e vuoto perché tutto da costruire, come possiamo orientarci nel disagio dell’incertezza? Probabilmente l’unico modo per spianare il terreno è non attendere il ritorno delle certezze e soprattutto di qualcuno che risolva il nostro tempo con nostalgia dei propri, ma accogliere la dispersione senza voler subito e per forza ritrovare l’ordine, lasciandoci vivere. Il nostro presente ha un’identità multiforme e fluida, difficile da comprendere, ma è anche il tempo della ricerca perché bisogna ricostruirne le basi ed è doveroso dargli un’opportunità, proprio come per tutti gli altri che ora sono diventati storia, senza disprezzarlo a priori ma vivendolo evitando di costringerlo in forme ormai anacronistiche che si distruggono ogni volta che proviamo a riproporle. La violenza più brutale che si possa mai perpetrare contro la novità è ucciderla solo per paura del cambiamento che porta con sé, demonizzandola e provando goffamente a ricucire un cielo di carta che può soltanto continuare a strapparsi punto dopo punto.
Illustrazione di Susanna Galfrè