E’ successo tutto all’improvviso. Velocemente. Dal banco alla cattedra. Dai coetanei agli alunni. Dai prof ai colleghi. Ma è rimasto tutto dentro le quattro mura di una stanza. Dentro quel grande affascinante (dis)ordine che è la
scuola. «Buongiorno, è stato segnalato per l’incarico annuale in questo istituto». Quella voce abituata ai trantran scolastici non si rendeva conto della grande novità che la vita di un neolaureato di 26 anni stava subendo. Molte
volte avevo sognato quella telefonata e ora, con la realtà pronta ad aspettarmi ad un telefono di distanza, sembrava
tutto troppo vicino. Il passaggio da studente a professore è così: ciò che prima sembrava lontano, separato da un abisso di conoscenza segnato dalla cattedra, ora è lì, senza preavviso emotivo alcuno, solo una
telefonata e qualche firma. Certo, la lunga strada dell’università è costellata di sogni e speranza ma, quando
queste si concretizzano, è tutta un’altra storia. I lunghi anni di studio hanno permesso di preparare tutto: il primo discorso agli alunni, la presentazione, immaginare le prime lezioni, ma quando i dettagli dell’orario e delle classi vengono elencati dalla voce metallica del telefono, il cervello si paralizza e non si può far altro che pensare: «È tutto vero».

L’inizio

Il tutto si complica quando il liceo in questione ti ha visto crescere e maturare al suo interno non più di dieci anni
prima, facendo sì che il passato e il futuro si mischino in un angosciante presente che si fa sempre più prossimo con il
passare delle ore. L’apice di tutto il processo di autoflagellazione emotiva arriva proprio davanti alla porta della classe, appoggiati ad un termosifone spento che funge da sostegno per un corpo proiettato in
quell’aula dalla porta chiusa e dal vociare deciso: «Sei il nuovo insegnante di religione? Molto piacere!» esclama un
collega, mentre alle sue spalle si materializzano visi curiosi di adolescenti che iniziano a sussurrare «Raga, c’è uno nuovo», seguito da un boato di commenti e domande. Entrando, il nodo dell’ansia viene al
pettine. Disponi il pc e l’agenda nuova sulla cattedra. Alzi lo sguardo verso una muraglia umana che sta studiando ogni
tuo aspetto: età, abbigliamento, modo di parlare e di muoversi, nulla sfugge allo sguardo attento di una classe di giovani detective improvvisati. Anche io li osservo: fino a poco tempo fa stavo dalla loro
parte, la differenza di età è minima, ma il mio sguardo è diverso proprio perché sta cercando di capire la direzione
del loro guardare. In piedi davanti a loro non ricordai nulla dei fiumi di inchiostro preparati anticipatamente come discorso di apertura, iniziai dal più banale degli esercizi didattici: l’appello.

Illustrazione di Alessandro Tamietto

Chiamare alla vita

Lo scorrere dei nomi divenne scorrere di vite:
«Giovanni, amo il basket e la corsa», «Elisa, ballo da quando ho sei anni», «Luis, nonostante il mio nome non amo nulla che sia latino-americano» e così in un gomitolo di racconti capaci di allentare la paura data dall’inesp erienza.
Proprio lo scorrere delle vite accese la normalità di un’aula piena di domande a cui si aggiunse la mia: «Dove siete arrivati l’anno scorso con il programma?» Silenzio, una mano timida si alza dalle barricate di astucci, «l’ebraismo e i patriarchi». La campanella suonò di colpo, urlai qualche raccomandazione per la settimana successiva prima che le grida pre-intervallo mi inghiottissero ed eccomi di nuovo nei corridoi gremiti di studenti, alla ricerca di una nuova aula e una nuova presentazione.

Poi c’è l’uscita da scuola, momento a cui si presta raramente attenzione ma ritorno naturale delle relazioni intessute in quella manciata di ore di cui il più spavaldo degli studenti si fa portavoce urlando: «E lei prof, come va a casa?» sancendo il giudizio positivo del tribunale studentesco che suona come un «questo nuovo potrebbe piacerci, proviamoci». Insegnare religione (Irc, Insegnamento della Religione cattolica), aggiunge difficoltà e curiosità al tutto. “Religione” è una materia spesso bistrattata e considerata l’ultimo insegnamento tra gli insegnamenti. Eppure, proprio l’insegnamento della religione, che in latino affonda le sue radici nel termine re l i g i o , “legare insieme”, è capace di riallacciare i rapporti generazionali tra un corpo docenti adulto e una generazione di adolescenti emotivamente fragili dopo una
pandemia destabilizzante, ancora di più quando il docente ventiseienne riceve interrogativi come: «ma lei a vent’anni
come fa a credere? Non è cosa da vecchi?». Il passaggio da professore a studente è allora presto catapultato nella realtà grazie agli studenti stessi, per cui si è docente credibile nel momento in cui si sta nelle domande e non le si negano, comprendendone la vertigine e, quando possibile, abbozzando risposte di cui saranno loro a stendere i colori.
Salendo in auto il turbinio di emozioni è forte. Si lievita come si fosse appena compiuta un’impresa che durerà una
vita, sgombri del peso al petto che si aveva. Forse proprio perché quella lenta e costante
azione di re – l i g a t u ra che il nuovo ruolo impone ogni mattino ha apportato il cambiamento di cui tutti i vecchi colleghi avevano avvertito: «L’ansia del primo giorno passerà quando ti renderai conto che le loro vite valgono più delle tue paure, solo così si può insegnare qualcosa e diventare un docente credibile».

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Samuele Migliore
Vicepresidente, teologo in erba, collaboro con l'Osservatore Romano e alcune testate diocesane locali. Dal 2023, dopo 5 anni da insegnante, sono educatore a Corviale, nella periferia di Roma, dove lavoro con minori a rischio devianza.

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