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Perché questa roba mi piace così tanto? Cosa mi spinge a guardarla così a lungo? Sono domande con cui un cinefilo, prima o poi, deve fare i conti. L’appassionato di cinema infatti, nei periodi di crisi mistica, si ritrova a sbobinare tre – se non addirittura quattro o più – film al giorno, l’uno dietro l’altro, senza sapere da dove provenga questa fame. Scavandosi la testa in cerca di un responso finisce col dissotterrare un altro quesito: quand’è che si diventa un divoratore di film?

Diario di uno spettatore

Per quanto mi riguarda, penso di aver ricevuto questo battesimo intorno ai dieci anni. Impossibilitati a uscire a causa di un intollerabile calura estiva, mio cugino più grande mi fece vedere, in una sola giornata, Radio Killer di John Dahl, San Valentino di sangue 3D di Patrick Lusser e Christine, la macchina infernale di John Carpenter. Quelle ore per me furono un concentrato sconcertante di sesso e violenza, o almeno è così che le ricordo. Ero agitato e sudato per l’adrenalina, mi sentivo anche un po’ sporco, ma non ci davo troppo peso. Da marmocchio quale ero pensavo si trattasse di quel mix di emozioni che si doveva percepire nel vedere un ‘film per adulti’, e, manco avessi guardato un porno, avevo l’impressione di non aver mai provato una sensazione così potente. Finita questa maratona allucinante, ci scambiammo qualche commento esaltato sulle scene più cruente e il discorso cadde su un altro film horror. Un film che mio cugino – il mio cugino più grande, quello che mi aveva mostrato le cose proibite riservate ai soli adulti – aveva lasciato a metà e non aveva mai osato concludere. Gli chiesi il titolo. Hostel, rispose, l’opera più celebre del regista Eli Roth, uno specialista del genere.

Il danno era fatto. Nella mia testa era appena stato piantato un seme le cui radici, dischiudendosi, si sarebbero ancorate ben salde al cervello. Dovevo vedere Hostel. Pochi giorni dopo, tutto era pronto per ricevere quel nuovo sacramento. Cris, ai tempi il mio migliore amico, aveva subdolamente sgraffignato una copia del film dal negozio di dvd di suo nonno, il leggendario ‘Montevideo’, bottega che da lì a pochi anni sarebbe stata barbaramente demolita dallo streaming imperante. Ci barricammo in casa e, dopo aver pazientemente atteso che il campo fosse libero da impedimenti per lo svolgersi di questo spettacolo vietato ai minori, attaccammo il film.

Visioni proibite

Ho un ricordo molto vivido dell’ansia che sentivo sulla pelle, del senso di fascinazione e sacro terrore. Nel vedere i titoli di testa scorrere su quelle immagini oscure e sfocate, dove s’intravedono di sbieco strumenti chirurgici, coltellacci, trapani e motoseghe insozzati di sangue, andava cumulandosi la promessa di una violenza potenzialmente inguardabile. Ancora oggi, nella mia memoria è incisa l’inquadratura di quel pavimento sporco e impregnato di sangue raggrumato. Quella crosta purpurea, colpita da un pigro getto d’acqua, si sfalda in viscidi rigagnoli che, colando verso un tombino, si trascinano dietro denti umani e schegge d’osso frantumato.  Il tutto è accompagnato dal placido fischiettare di un uomo, intento a ripulire dalle tracce di violenza quel luogo malsano. Queste immagini mi davano l’impressione di trovarmi in una vera e propria anticamera dell’inferno, da dove potevo solo scorgere o immaginare ciò che Hostel aveva in serbo per me.

E dovetti immaginarlo ancora a lungo, perché al termine di quella prima sequenza il film si piantò: il dvd era rigato e fu impossibile procedere nella riproduzione. Rimasi di sasso, mi sentivo come se mi avessero fregato il più buono degli hamburger proprio mentre stavo per addentarlo. Settimane dopo, venni a sapere che MTV avrebbe trasmesso il lungometraggio alle ventuno di mercoledì. Sarebbe stato difficile convincere i miei genitori a farmi guardare la TV, la sera, con la scuola il giorno dopo, ma tentai lo stesso. Stranamente approvarono, ero galvanizzato. Mamma e papà rimasero a vedere il film con me: venti minuti e mi spedirono a letto. Ma non mi diedi per vinto. Scoprii infatti che quel maledetto film sarebbe passato in replica la mattina seguente, alle cinque e mezza. Non avendo ancora a disposizione le meraviglie dell’on-demand, giovedì mi alzai che fuori era ancora buio e riuscii a portare a termine l’agognata missione.

L’occhio vorace di Eli Roth

Hostel segnò così la mia comunione indissolubile con il mondo malaticcio della cinefilia. Fu il primo oggetto audiovisivo a scaturire in me i sintomi di una fame implacabile e ammorbante, rappresentata da quella spasmodica, insaziabile ansia del dover vedere ‘di più’, proprio perché consapevoli di non aver ancora visto l’impossibile, l’invisibile. E ogni volta che mi imbatto nei lavori di Eli Roth, che sia l’esordio Cabin Fever o il più recente Thanksgiving, ho il presentimento di trovarmi di fronte all’opera di una persona affetta dalla stessa identica e dilaniante voracità.

Classe 1972, Eli Roth durante l’infanzia realizzò una marea di ‘filmetti’ con i fratelli Adam e Gabe, per poi laurearsi alla New York University nel 1994 col cortometraggio Restaurant Dogs. In una manciata di minuti, Roth riuscì a mescolare il gore e lo slapstick delle produzioni underground della Troma con il black humor dei Monty Python, arrivando persino a citare la scena più iconica de Il cacciatore di Michael Cimino del 1978. Come se non bastasse, il titolo prende le mosse da Le Iene di Tarantino, Resevoir Dogs in originale, di cui Roth si diverte a rimettere in scena la memorabile sequenza degli opening credits. Solo che a sfilare non ci sono gangster in giacca e cravatta, bensì le mascotte dei principali fast food americani, trasformate per l’occasione in perfide creature assassine. Si tratta del frutto precoce di un regista in erba, che mette lo spettatore di fronte a un amore per il cinema privo di mediazioni e meditazioni. Si ha il sentore di trovarsi di fronte a un ingordo, che di film ne ha masticati tanti, ma non li ha ancora digeriti tutti.

Restaurant Dogs lasciò i professori basiti e perplessi, mettendo Roth a rischio per il conseguimento della laurea. Ma il lavoro fu apprezzato agli Student Academy Awards e venne proiettato al MOMA. La cosa più interessante di questa piccola perla bizzarra è che prefigura la futura carriera del giovane filmmaker. In poche inquadrature, esce fuori un concetto che verrà riproposto costantemente in tutte le sue opere successive: il fatto che l’esercizio del cinema sia prima di tutto manifestazione della propria cinefilia. Da lì a pochi anni, in più, si troverà coinvolto prima in alcune produzioni Troma, per poi finire a collaborare proprio con Quentin Tarantino.

La parentesi Troma Movies

È nel periodo che precede l’esordio al lungometraggio, dove Roth aveva cominciato a muovere i primi passi a Hollywood lavorando ad alcune serie televisive, a cui risalgono le sue brevi apparizioni in Terror Firmer e Citizen Toxie: The Toxic Avenger IV di Lloyd Kaufman. Si tratta dei due capolavori assoluti della Troma, mitica casa di produzione newyorkese.

Eli Roth in Citizen Toxie

La prima pellicola è un autentico must-see, una sorta di 8 ½ in salsa splatter e permeata da un umorismo dissacrante. La vicenda ruota attorno a un killer, il quale nutre non pochi dubbi sulla propria sessualità, che comincia a fare a pezzetti i membri di una sgangherata troupe cinematografica capitanata da un regista cieco. L’ostinazione dell’equipe nel voler portare a termine le riprese finisce col trasfigurarsi in un gesto di resistenza fortemente politico. In Terror Firmer, il fare cinema diventa l’unica possibilità per dimostrare la propria, militante, filosofia di vita. Così l’aderire a un genere cinematografico, o il suo volerlo decostruire, si trasforma in qualcosa riguardante prima di tutto la propria identità.  Per questo l’assassino, amante dei grandi blockbusters ma relegato a lavorare in produzioni di serie B, somatizza ciò divenendo uno strano freak. Un essere weird e queer che oscilla tra una mascolinità ipetrofica e una femminilità esasperata.

A differenza di questo villain, Eli Roth aveva le idee ben chiare: voleva erigersi a porta bandiera del genere horror. Trovo significativo che il futuro regista appaia nella lunga scena che culmina con la morte di alcuni viscidi critici cinematografici francesi. La sequenza auto sancisce, con la soppressione di questi rappresentanti del ‘bello istituzionale’, la rivalsa delle cinematografie minori e marginali, che proprio Roth tenterà di riportare in auge.

L’esordio alla regia

Fortemente influenzato dallo spirito delirante di Lloyd Kaufman, Roth realizza Cabin Fever, film che rilegge in maniera grottesca e surreale il topos orrorifico della casa nel bosco. La storia segue un gruppo di studenti universitari che si accinge a trascorrere un tranquillo weekend in un cottage in montagna. Ovviamente la vacanza si trasformerà nel peggiore degli incubi. Seppur l’ambientazione attinga a piene mani da La Casa di Sam Raimi, l’atmosfera, caratterizzata da una giocosa ironia camp, sembra portare lo spettatore in Twin Peaks, serie capolavoro di David Lynch. In certi momenti si ha davvero la sensazione di stare osservando una zona sconosciuta della ridente e misteriosa cittadina lynchana. Ciò è dovuto in primis alla soundtrack del film, nella quale figurano alcuni brani dello storico compositore di Lynch Angelo Badalamenti, ma anche e soprattutto per i comportamenti di alcuni personaggi, talvolta davvero parossistici. Penso al poliziotto interpretato da Giuseppe Andrews, tra l’altro un bravissimo attore e regista – vi segnalo lo splendidoTrailer Town del 2003, sempre di produzione Troma -, che ricalca molto l’ingenuità dell’agente Andy Brennan della serie Anni ‘90.

La cosa più interessante di Cabin Fever è che questi studentelli non sono minacciati da entità demoniache o brutali serial-killer, ma da un virus letale che dilania ‘cronenberghianamente’ le carni delle sue vittime. I borghesotti al centro della vicenda si ritrovano faccia a faccia con uno spietato confronto contro madre natura. Questo conflitto viene traslato nei contrasti che intercorrono tra gli studenti-turisti e gli abitanti del villaggio di montagna. I primi sono delineati come gente di città smaccatamente superficiale e snob, mentre i secondi vengono tratteggiati come degli zoticoni ignoranti sul modello dei campagnoli di Un tranquillo weekend di paura. La morte dei protagonisti segnala, oltre la loro incapacità di adattamento, come questi vengano rigettati dalle campagne, decretando la soppressione di una sorta di colonialismo cittadino.

Io sono un cittadino americano

Nel dittico di Hostel, realizzato con il supporto di Quentin Tarantino tra il 2005 e il 2007, Roth riprende le tematiche post-colonialiste, riversandole su scala geograficamente più ampia. Gli attriti tra città e periferia vengono trasformati in un duello tra America ed Europa. Entrambi i film hanno come protagonisti degli studenti universitari americani, uomini nel primo e donne nel secondo che, durante un viaggio in Slovacchia, vengono rapiti per essere seviziati da ricchi uomini d’affari, i quali hanno pagato una lauta somma per disporre come meglio credono di questa carne da macello.

Fotogramma di: Hostel © 2005 Eli Roth/Lionsgate, Sony Pictures, Screen Gems, TriStar Pictures, Columbia Pictures

Molto spesso quando i personaggi si sentono minacciati, oppure devono giustificarsi per un’azione moralmente deplorevole, pronunciano la frase «Io sono un cittadino americano». Succede nel primo capitolo, dove i protagonisti, turisti arroganti che viaggiano in cerca di sesso facile e droghe, vengono buttati fuori da una discoteca dopo aver scatenato una rissa. Addirittura, i ragazzi dichiarano la propria nazionalità per cercare di suscitare interesse nelle ragazze, rendendola nuovamente nota quando, messi alla gogna nella camera delle torture, si trovano a implorare gli aguzzini di lasciarli andare. L’enuncio della propria americanità assolve, deresponsabilizza, legittima da un lato e funge da monito dall’altro, come fosse un lascia passare migliore di qualsiasi passaporto.

In Hostel part II, oltre alle malcapitate studentesse, figurano tra i carnefici due americani benestanti, curiosi di provare ‘qualcosa di forte’. L’Europa assurge così a sostituto della periferia, diventa una terra misteriosa e selvaggia, esente dalle leggi del mondo civilizzato. Droga, prostituzione e violenza: tutto, in un primo momento, sembra essere concesso a un americano. Ma proprio come in Cabin Fever, il destino che Roth riserva ai personaggi dimostra quanto sia ormai fuori tempo la figura spadroneggiante del settler.

Le influenze del cinema di Eli Roth

Per questi due film, Roth abbandona i classici dell’horror americano, creando un pastiche di citazioni che vanno dal cinema dell’estremo oriente, agli spaghetti horror e i gialli italiani degli Anni ’70. Dalla saga di Guinea Pig e i lavori di Takashi Miike, che appare in un cameo nel primo capitolo, si passa ai ruoli-tributo nella part II riservati a Edwige Fenech, Luc Merenda e Ruggero Deodato, vere e proprie leggende del cinema di genere italiano.

Successivamente, Roth collabora con Quentin Tarantino per Grindhouse e Bastardi senza gloria, in doppia veste di regista e attore. Per il primo film realizza il fake trailer Thanksgiving, da poco divenuto un lungometraggio, mentre per il secondo, oltre a ricoprire l’iconico ruolo dell’Orso Ebreo, gira il cortometraggio Orgoglio della nazione, finta pellicola di propaganda nazista al centro dell’atto finale della vicenda tarantiniana. L’ironia di quest’ultima operazione sta nel fatto che Eli Roth è ebreo.

Dopo sei anni di pausa, il maestro dell’horror torna a rimestare nei cult italiani, dedicando il suo The Green Inferno proprio a Ruggero Deodato, autore di Uomini si nasce, poliziotti si muore, La casa sperduta nel parco e soprattutto del famigerato Cannibal Holocaust. Proprio da quest’ultimo Roth attinge a piene mani, ma senza dimenticare altri capisaldi del filone come Mangiati Vivi! di Umberto Lenzi, La montagna del dio cannibale di Sergio Martino e Ultimo mondo cannibale, pellicola del ’77 ancora di Deodato. La vicenda racconta di un gruppo di ambientalisti, sempre americani e sempre un po’ ipocriti, che si reca in Perù per manifestare contro il disboscamento della foresta pluviale. Nella giungla però, i ragazzi finiscono tra le grinfie di una tribù indigena avvezza a nutrirsi di carne umana. Sarà un vero e proprio iperproteico American meal.

eli roth
Paura e disgusto nel cinema di Eli Roth

Il piacere visivo

Così la parabola post-coloniale iniziata nel lontano 2002 giunge al suo apice, ma ciò che più colpisce di The Green Inferno è la presenza innervante e pervasiva di questa cinefilia annichilente. Ancor di più che nei progetti precedenti, qui il collage di riferimenti irradia il tessuto narrativo del film in modo completamente acritico, senza aprirlo a una lettura capace di estendersi su un ‘piano-altro’. Anche il presentarsi e ripresentarsi, consapevolmente, di stereotipi, stilemi e meccanismi di genere già collaudati, non vuole metterne in discussione la loro funzione. Si tratta di un gesto di appropriazione pura, compiuto da una persona che ama talmente tanto questa roba da volerla per forza rivedere nel proprio lavoro. Il recente Thanksgiving, nel seguire pedissequamente – in modo biblico, paradigmatico- le regole dello slasher, è un esempio lampante di questo genuino e infantile conservatorismo (si sa che i bambini hanno quei due o tre giocattoli preferiti da cui non si separano mai). Non si è davanti a un cinema trattato, metabolizzato o giunto a una sintesi, ma semplicemente divorato. Quello a cui si aspira è un piacere visivo gratuito e aleatorio.

Questa tensione al riproporre, sintomo del voler riguardare, raggiunge la sua sublimazione nell’atto del ‘rifare’. Ne sono un esempio Knock Knock e Il giustiziere della notte, film dove Roth si misura con due sottogeneri del cinema di exploitation: l’home-invasion a tinte erotiche e il revenge-movie. Il primo è un remake di Death Game di Peter S. Traynor, mentre il secondo è un rifacimento del classico omonimo con Charles Bronson. Anche il documentario Fin del 2021, spietata indagine sulla pesca allo squalo, dietro la tematica animalista e ambientalista, nasconde in realtà lo sguardo meravigliato di chi si trova faccia a faccia con l’icona horror de Lo squalo di Spielberg.

Da esperto divoratore di celluloide, Eli Roth sembra inseguire un film infinito che ha avuto origine nell’attimo in cui ha provato, per la prima volta, inquietudine e dolore quando lo schermo si è spento e la sala si è accesa. Mi chiedo quale sia l’opera che ha sancito l’inizio di questa particolare perversione, che sembra consistere nel non voler vedere altro e per sempre e con una totale devozione che il film della prima volta. A differenza dell’immagine della scimmia sulla schiena del drogato, Eli Roth rappresenta la propria fame sotto la forma di una tenia fosforescente che gli cresce dentro e lo dilania: crudele compagno segreto che condivide con lui ogni nuova visione. Quello di Roth è un cinema di una sincerità destabilizzante, dove spicca tutta l’innocenza di chi si concede il divertimento di creare sogni orrorifici. ♦︎


Illustrazione di Giovanni Gastaldi