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Dicono che la pace sia l’equilibrio dei sensi. 

Dicono che il passato sia un albero secolare, di quelli con il tronco saldo e nodoso che resiste all’erosione delle intemperie e del tempo: vive nei ricordi e questi, come radici, si insinuano nel presente donando nutrimento o stritolando tutto in una morsa omicida.  

Il sole tiepido del pomeriggio scalda l’asfalto della strada. 

Fuori dal finestrino dell’auto ferma al semaforo osservo le altre macchine ferme in coda e mi lascio cullare dalle delicate vibrazioni del motore acceso.

Poi, qualcosa attira la mia attenzione: tra i fruscii e le interferenze della radio una melodia familiare mi solletica le orecchie, penetra nel corpo e smuove qualcosa nel petto che da tanti anni viveva latente dentro di me. 

In un attimo immagini dal passato mi esplodono nella mente come un’allucinazione, le radici dell’albero riaprono gli stessi tagli di un tempo incidendo cicatrici di vecchia data.

Il suono dei clacson mi sollecita a ripartire e così, con una emozione indecifrabile che si agita e si dibatte dentro di me, faccio inversione e torno verso casa. 

In camera il letto ancora sfatto dalla mattina mi osserva con aria di rimprovero. 

Vado alla scrivania e scorro lo sguardo sui ripiani. Uno, due, tre. Eccolo. Apro il terzo cassetto e con stupore noto che nulla è cambiato. Il tempo pare essersi dimenticato di quell’angolo della stanza e nemmeno la polvere ha osato posarsi su quegli oggetti di un passato che credevo concluso. 

Tiro fuori un libro dalla copertina nera opaca e lo apro. Con lo stesso fruscio di quei volumi polverosi dimenticati negli spazi più angusti delle biblioteche le pagine che per tanto tempo erano rimaste incollate le une alle altre si separano e la luce riporta in vita i colori di vecchie foto.

Sfoglio l’album ed eccomi di nuovo su quel camper un po’ malandato tra le colline della Toscana, e poi su, in alto sulla funivia del Monte Bianco, il naso un po’ rosso che pizzica per l’aria frizzante di montagna. Poi, qualche pagina dopo, scorgo il volto di una me ancora ragazza, lo sguardo rivolto con scherno verso il fotografo ma il viso ancora ingenuo, con meno ombre sotto gli occhi e gli angoli della bocca ancora rivolti all’insù.

Ho bisogno di aria: afferro la borsa, mi chiudo la porta di casa alle spalle e mi lascio circondare dal caotico e frenetico rumore della città.

Salgo sul primo tram che mi si ferma davanti e lascio che la città e i palazzi scivolino uno dopo l’altro alle mie spalle. Quando arrivo il sole è già basso sui palazzi di Torino. 

Mi siedo sul muretto e osservo la città che vive davanti ai miei occhi con un’anima propria, indifferente alla morsa di quelle radici che, ancorate alla mia pelle, ora mi impediscono il respiro.

Mi sbagliavo quando pensavo di essere ormai assuefatta a quel dolore sordo e costante che anestetizza i sensi, cresce nello stomaco e toglie la fame, distaccando il corpo da ogni percezione circostante.

Ricordo con nitidezza tutte le armi del conflitto interiore che mi dilaniava, affilate come gli spigoli sempre più evidenti che si disegnavano sul mio corpo giorno dopo giorno. 

Ricordo la solitudine come migliore compagna di tante notti insonni.   

E mentre ricordo le lacrime mi colano sul viso e scendono lungo il collo: lacrime di rabbia verso me stessa che ho pensato di seppellire il dolore nel passato, lacrime di scusa verso quella parte di me che é stata ferita e mai curata e lacrime di rancore perché solo ora, dopo tanti anni, mi rendo conto di tutto questo. Ma le mie sono anche lacrime di gratitudine per coloro che mi hanno fatto riscoprire le cose per cui vale la pena vivere come la leggerezza che pervade il corpo seduti in mezzo a un prato in primavera o il divertimento di una serata con gli amici davanti a una serie tv.

È ora di fare pace con me stessa e con ogni singola parte di me.

Mi alzo, tiro fuori dalla tasca il cellulare e con un click scatto una foto alle luci della Torino di notte. 

Sarà la prima di un nuovo album.