Ai miei genitori piaceva particolarmente misurare la mia statura con il metro dell’intelligenza. Guardavano gli altri bambini e, innocentemente istigati dai complimenti della nonna, che non vedeva oltre la solida barriera dei miei buoni voti scolastici, pensavano di aver generato un gran genio solamente perché avevo compreso come calcolare l’area del trapezio prima dei miei compagni di classe. Presero dunque l’abitudine di misurarmi ogni giorno con il famigerato metro, ma ben presto si accorsero che ero diverso dagli tutti gli altri. Ebbene, la mia statura non accennava ad aumentare, anzi, ben presto cominciarono a ripetermi con espressione stanca e, di tanto in tanto, infastidita: “Pancia in dentro e petto in fuori. Stai ben dritto con la schiena, chissà che non recuperi un paio di millimetri.”
Alla fine, arrendendosi, tentarono altre astruse unità di misura: “Il metro della forza! Il metro della loquacità! Il metro del coraggio!”
Mi pareva di cattivo gusto ridere dei loro sforzi, ma non mi trattenni quando si presentarono un giorno con il metro della velocità e, effettuato il controllo di routine, li dovetti lasciare a contemplare il tristissimo, tondo, numero che, non troppo inaspettatamente, comparve. Ringraziavo che la mia vita non fosse serrata dietro le sbarre di una velenosa tabella di marcia come la loro e trascorrevo ogni secondo che impiegavano a coltivare la loro invidia dissezionando il mondo con l’immaginazione. Se avessero provato a misurare la mia statura con il metro della curiosità sarei stato il ragazzino più alto del mondo.