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Una bambina non ha voluto essere presa in braccio perché riteneva di essere troppo pesante. E lì ho realizzato che dell’infanzia non avevo capito proprio niente.

Cominciate ad ascoltare i bambini che vi stanno attorno, i vostri, quelli che vedete al parco o magari incontrate per i più svariati motivi nella vostra quotidianità. Io l’ho fatto, mi sono abbassata in modo tale da poterli guardare dritti negli occhi e ho imparato davvero a dare un peso alle loro parole.

Spesso, e molto erroneamente, mi sento di dire che romanticizziamo l’infanzia, come se i bambini vivessero in una meravigliosa bolla, un mondo dei balocchi. Zero stress, zero preoccupazioni, zero problemi. Questo pregiudizio ci porta a dare poco peso a quello che ci dicono, prendendo le loro affermazioni con la stessa leggerezza con cui tendiamo a identificarli.

Nel corso degli ultimi anni ho avuto l’opportunità di lavorare a stretto contatto con i bambini grazie agli oratori estivi; quando passi intere giornate con qualcuno impari pian piano a conoscerlo e, con un pizzico di fortuna, tanto impegno e passione nel tuo lavoro, riesci a conquistarti la fiducia di questi piccoli esseri carichi di creatività e voglia di fare.

Quando sei un educatore, uno dei riconoscimenti più belli è il vedersi correre incontro con le braccia aperte a preannunciare un grande abbraccio. Proprio da questo gesto così semplice e genuino ho scoperto qualcosa che mai mi sarei aspettata. Nel momento di un abbraccio con una bambina di otto anni, ho vissuto una scena che ritenevo quasi surreale, fuori dal mondo che credevo di conoscere: questa bambina mi abbracciava, ma non lasciava che io la prendessi in braccio. E sapete perché? «Sono troppo pesante» mi ha detto, come a volersi giustificare. Una bambina, di solo otto anni, si crede troppo pesante per poter apprezzare un abbraccio. Non era una semplice preferenza ma un reale disagio.

Illustrazione di Lorenzo Miola

Una bambina di otto anni. A otto anni i bambini stanno imparando le divisioni, giusto per farci un’idea. Non sanno quante caramelle riceverà ogni bambino della classe se la maestra ne ha portate 35, ma possono provare disagio nei confronti dei loro corpi.

Quel momento, che avrei tranquillamente potuto prendere sul ridere, che avrei potuto interpretare come una battuta di una bambina, che avrei potuto dimenticare senza troppi problemi – d’altronde erano due minuti su una giornata di otto ore – mi ha invece portata a riflettere a lungo. E ho cominciato a porre attenzione a sottigliezze come questa.

Quando ti metti realmente ascolto ti accorgi che questi bambini stanno assorbendo, come spugne quali sono, tutta la tossicità della cultura dell’immagine.

Bambine che non si piacciono e mettono di proposito felpe larghe, anche d’estate, qualcuno che ti confida di non piacersi. Che dice «sono brutto», «sono grassa», «vengo sempre male nelle foto». Parli con un genitore e scopri che la figlia ha pianto a dirotto dopo essersi sentita dire «sei grassa» da un’amichetta. Bambini che non vogliono mettersi in costume in piscina per paura del giudizio altrui non mancano. Atti di bullismo per l’aspetto fisico non credo sia nemmeno necessario menzionarli, data la loro diffusione, anche a livello mediatico.

Tra i dati più aggiornati legati ai Disturbi del Comportamento Alimentare  (DCA) troviamo quelli relativi al periodo Covid, in cui è stato rilevato che un bambino su dieci ha presentato sintomi di disturbi alimentari. Vuol dire che, in media, in una classe di scuola se ne potrebbero trovare tranquillamente due. Queste fredde (e preoccupanti) statistiche ho potuto toccarle con mano, viverle, ascoltarle. E hanno avuto in me un grande impatto.

Di fronte a questi bambini mi sono sinceramente sentita in difficoltà, io in prima persona. Perché li capivo, perché anche io mi ero vergognata del mio peso, della mia pancetta, delle mie imperfezioni . Mi sono sentita in difficoltà nel trovare le parole giuste per rispondere. Cercavo di mettere in risalto quanta bellezza è presente in loro e nei loro corpi; quanto il nostro corpo fa per noi, quanto rispetto e amore si meriti.

Più impegnativo del trovare le parole giuste è capire che la maggior parte di quelle parole le avevo messe in bocca io a loro. Io e tutte le persone con cui avevano avuto contatti. Anche io ho vissuto un rapporto conflittuale con il mio corpo, e magari ne avevo parlato in loro presenza, magari inavvertitamente o con leggerezza, ma niente mi dava la certezza di non averlo fatto. E i bambini apprendono da ciò che sentono, dall’ambiente che li circonda nel quotidiano, dalle persone che incontrano nel loro cammino e che si prendono cura di loro. Assorbono, e purtroppo assorbono anche tutte le tossicità che ci appartengono e a cui spesso nemmeno facciamo caso.

È quindi necessario interrogarsi, ancor prima di sensibilizzare, su come impostiamo noi la narrazione relativa ai DCA. Forse che, con quel giudizio in più su un corpo, io non abbia spinto una bambina di otto anni a pensare di non essere degna di essere presa in braccio?