Tra le proiezioni più attese del 41° Torino Film Festival, Kubi è una grandguignolesca goduria dove Kitano si diverte nel decostruire il jidai-geki. Ambientato in epoca feudale, il lungometraggio è basato su un romanzo dello stesso cineasta e rilegge le vicende militari che segnarono il tempio di Honno-ji. Il dispotico Oda Nobunaga ha ormai conquistato gran parte del Giappone e sopprime con ferocia le ultime resistenze per unificarlo sotto il suo dominio. Quando i clan a lui sottomessi non ottengono i riconoscimenti sperati, i rispettivi capi decidono, in maniera molto poco ortodossa, di eliminare il tiranno. Inutile dire che tutto degenererà in un’escalation di violenza, dove l’unica legge in vigore sarà quella del massacro totale.
Kitano mette le cose in chiaro fin dai primi secondi di film. Kubi, vocabolo che indica la testa e il collo, si apre su un fiume disseminato di cadaveri decapitati. Dalle trachee recise escono placidamente dei granchi, che zampettano indifferenti sui corpi cullati dall’acqua. In araldica (lo studio degli stemmi e dei vessilli), il granchio simboleggia la gravità dei modi e del pensiero. Vedere questi crostacei sbucare fuori dalle ferite e andarsene sembra liberare i corpi dal peso annichilente di un’entità metafisica e ammorbante. È un’immagine dalla luce limpida, che trattiene un qualcosa di appianante e pacificatorio, chiarificatore. Ma è un’effige che, affiancata al titolo, segnala un’assenza paradossale per un racconto dove le teste (tagliate) sono importantissime.
Teste tagliate
‘Vorrei uccidere ogni essere umano del mondo in un bagno di sangue, per poi alla fine tagliarmi la testa. Sarebbe purificante’. Kitano mette in bocca a Nobunaga parole profetiche. Il despota, per unificare la terra del Sole, ha ingaggiato una serie di battaglie sanguinosissime e di una violenza senza pari. Sembra che l’unica strada per arrivare a un nuovo equilibrio, sia quella di avviare forzatamente un rapido processo di disgregazione accelerazionista. L’unità ultima si può raggiungere solo tramite la mutilazione, così come un nuovo status-quo politico è realizzabile esclusivamente con una ricomposizione delle parti in causa. Alcuni rami vanno potati, come si suol dire. I luogotenenti ora vogliono la testa di Nobunaga, gli stessi che lo avevano appoggiato nelle carneficine e che con lui componevano un esercito. Nel rivolgimento interno all’organo militare s’intravede l’immagine di un corpo orientato verso un programmatico suicidio.
Nei subdoli giochi di potere che il film mostra, Kitano ricalca il Kurosawa più shakespeariano de Il Trono di Sangue e Ran, rispettivamente un adattamento del Macbeth e di Re Lear in salsa samurai. Dal primo, attinge ai parossistici deliri di onnipotenza che vengono riservati ai protagonisti, dal secondo, prende i colori sgargianti dei costumi e delle scenografie, oltreché l’ossessione per le ‘concessioni di diritto’.
Kubi e la via del samurai
Ma Kubi si rifà anche ad un altro classico del cinema nipponico, ovvero I racconti della luna pallida d’agosto di Mizoguchi. Uno dei personaggi del film di Kitano è un ragazzo ossessionato dal voler diventare un samurai, esattamente come il vasaio Tobei nel capolavoro del’53. Né I racconti, Tobei assiste alla decapitazione di un generale nemico per mano di un soldato. Il vasaio uccide il milite assalendolo alle spalle, prende la testa del generale, portandola allo Shogun come falsa prova del suo valore di guerriero. In Kubi, questo ragazzo che ribolle di rabbia decapiterebbe qualsiasi cosa pur di venir preso in qualche clan. Nella sua scena madre, il ragazzo si ritrova in una situazione analoga al film di Mizoguchi. Ma nel momento in cui ruba la testa di un nobile ucciso, decantando la grandezza del suo stesso e inesistente valore, finisce brutalmente dilaniato da lance e spade.
L’attaccamento dei personaggi per ottenere la supremazia a tutti i costi è pervaso di un’infantile capricciosità e ritratto in tutta la sua superficiale gratuità. Il film muove da due pilastri del cinema giapponese, Mizoguchi e Kurosawa, ma tutta l’epicità e la magnificenza che innervavano le opere di questi maestri viene svilita e depauperata in un’overdose di splatter e ultraviolenza al limite del grottesco. In Kubi, si dipanano infime dinamiche di stampo mafioso più simile ad uno yakuza-movie, genere tanto caro a Kitano, che al codice del bushido. La nobile via del samurai è solo un lontano ricordo. ♦︎