Presentata alla 76° edizione del Festival di Cannes, l’ultima pellicola di Alice Rohrwacher racconta l’incessante e straziata ricerca di un filo rosso che congiunga il visibile all’invisibile.

Corpo di leone, testa di capra e coda di serpente. È così che la chimera viene descritta nella mitologia greca: una creatura spaventosa e multiforme, che cambia aspetto a seconda della versione del mito che si sta leggendo. Forse ha due teste, forse possiede fauci che sputano scintille di fuoco. Forse, invece, ha un morso che avvelena chiunque ne resti stretto. Nessuno degli antichi sa quale sia la reale forma di questo mostro. Ma non ha importanza. Alcuni sostengono di essercisi imbattuti nei pressi di luoghi sacri. Altri, invece, ne descrivono incontri orrorifici all’interno di tombe. Tutti gli uomini antichi credono che la chimera esista, e ne hanno timore.
Ma l’uomo moderno è ancora capace di credere alle chimere?

Nel suo ultimo film, presentato a Cannes 76, che chiude la trilogia iniziata con Le Meraviglie (2014) e proseguita con Lazzaro Felice (2018), la regista Alice Rohrwacher si pone proprio questa domanda: in una società scettica e disillusa, c’è ancora spazio per ciò che è trascendentale e chimerico? All’interno di un mondo post-moderno, c’è ancora spazio per ciò che va al di là della logica del guadagno?

Arthur, un’anti-eroe ‘appeso’

Inizio degli anni ’80. Una combriccola di tombaroli si aggira lungo la costa tirrenica, in cerca di tombe etrusche dai preziosi bottini. Sono tombaroli di professione, guidati da un archeologo, che tutti chiamano ‘lo straniero’: si tratta di Arthur (interpretato da un’impeccabile Josh O’Connor), un giovane inglese, esperto dei luoghi dell’Etruria. Arthur è, in effetti, l’intermediario essenziale tra i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti. Infatti, grazie al dono della rabdomanzia, egli riesce a scovare con facilità i punti precisi in cui iniziare gli scavi. Nel dispiego, a tratti sovrannaturale, delle sue doti, anche gli scettici devono ricredersi.

Arthur non è molto diverso da ciò che è raffigurato nella carta dei Tarocchi chiamata ‘l’Appeso’. Essa rappresenta un uomo appeso a testa in giù: è la carta di chi guarda il mondo da un’altra prospettiva e che sarà ripresa nella locandina del lungometraggio. Al pari dell’Appeso, ogni volta che Arthur entra in contatto con l’altro mondo, anche la telecamera ruota, e lo sguardo di Alice Rohrwacher ci mostra uno spazio che si riavvolge su se stesso, con Arthur che entra in quel mondo pur restando fermo nel proprio: ancor prima che straniero agli occhi degli altri, Arthur è uno straniero a se stesso. Egli è, inoltre, ‘appeso’ a un mondo che non esiste più: quello di luce e felicità che aveva vissuto con Beniamina, che vediamo, in alcune scene in soggettiva, mentre srotola una matassa di filo rosso in un campo. Arthur la segue mentre lei gli dice: «Il sole ci segue».

Brillante, goffo, talvolta scontroso, Arthur incarna l’anti-eroe ideale che guida Pirro e gli altri tombaroli in una vera e propria catabasi verso il mondo infero, rivelatore del passato etrusco. Arthur, prima ancora di essere uno ‘straniero’, e per questo avere uno sguardo privilegiato sul mondo, è, usando le parole di Rohrwacher, «un’anima persa, un’anima romantica all’interno di questo mondo materialista». Egli, infatti, incarna lo spirito goethiano, proprio del Romanticismo, di malinconia per il passato. È questo lo spirito che ha spinto orde di studiosi a dedicarsi allo studio delle rovine e per tutto ciò che riguarda il passato di fasti perduti. Il sentimento che muove Arthur, quindi, non ha nulla a che vedere con l’arida sete di guadagno che spinge invece gli altri tombaroli a trafugare i reperti etruschi e consegnarli a Spartaco (Alba Rohrwacher), abile ricettatore di manufatti archeologici rivenduti alle aste a milioni di euro. Per Arthur, al contrario, quei luoghi sono degni di rispetto, hanno una valenza sacra perduta che il resto dei tombaroli, incluso Pirro, non riescono a percepire: per loro le tombe sono solo luoghi in cui rubare preziose suppellettili da rivendere. Nessuno di loro sembra aver timore di violare un luogo sacro e tantomeno di imbattersi in un mostro. A risvegliare ancor di più in Arthur questo sentimento di deferenza verso quei luoghi perduti è l’innocenza di Italia, ragazza di origine portoghese, un’altra ‘straniera’ come lui, che però lavora come domestica nella casa della signora Flora, un’anziana ereditiera. «Cosa fate? Non vi accorgete che siete su una tomba?» grida Italia ad Arthur in una scena cardine del film, facendosi portavoce di una morale non ancora corrotta dai voleri capitalistici, ma che si è preservata ed appare mossa da uno spirito ancora genuino.

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Fotogramma di: La chimera © 2023 Alice Rohrwacher/Tempesta, Rai Cinema, Ad Vitam, Amka Films Production

Gerarchie invisibili

L’ambientazione pre-digitale e il contesto rurale in cui è collocata la storia, una costante nella trilogia di Rohrwacher, sono portati sul grande schermo grazie alla direzione della fotografia affidata a Hélène Louvart che, ibridando i tre formati del Super 16 mm, 16 mm e 35 mm, restituisce una patina analogica essenziale per immergersi in una storia dal forte connotato poetico. La regia di Rohrwacher guida lo spettatore attraverso le avventure picaresche dei tombaroli attraverso uno sguardo che proviene da fuori, che riguarda una collettività e un’appartenenza. È la regista stessa ad ammetterlo: «Non bisogna riferire tutto a sé e alla propria individualità, ma a volte si pensano le cose del mondo, si sentono i pensieri del mondo. Questa è un’altra forma di mostrarli».

Allo stesso modo in cui Italia è succube degli ordini di Flora, i tombaroli e Arthur sono assoggettati alle disposizioni di Spartaco. L’universo rohrwacheriano è sempre fortemente gerarchizzato: c’è chi comanda e chi obbedisce, in un mondo in cui vale solo la legge hobbesiana per cui ‘homo homini lupus’, l’uomo è il lupo di un altro uomo. A differenza di Lazzaro Felice, film in cui questa considerazione è sviluppata fino al tragico approdo finale, ne La Chimera l’illusione che valori morali, come solidarietà, amicizia e amore, esistano non in un’altrove ma nel mondo del qui, si protrae più a lungo, durante l’arco narrativo del personaggio principale, Arthur. In una grande metafora capitalistica, tutti i personaggi, vittime di inganno, subiscono i voleri di altri pur essendone consapevoli. Flora sfrutta Italia come domestica, ma dice alle figlie che l’unico motivo per cui la trattiene in casa è di impartirle lezioni di canto. Pirro approfitta delle doti di rabdomante di Arthur per riesumare i reperti delle tombe, ma cela questa dipendenza dietro un’amicizia che appare sincera. Anche l’anziana Flora, padrona di un maniero in rovina, in realtà non sfugge a questa catena schiavo-padrone, perché è, a sua volta, alle dipendenze delle sue figlie, che decidono per lei e le impediscono di essere libera.

Invisibile e visibile. Dagli anfratti delle tombe occultate fino alle lussuose stanze di uno yatch, l’occhio di Rohrwacher ci conduce lungo il processo silenzioso e capitalista di cui siamo tutti vittime e carnefici. Non solo il filo rosso che lega Arthur a Beniamina: esistono anche fili invisibili, come quelli che legano i tombaroli a Spartaco, sono questi i fili del capitalismo su cui Rohrwacher si sofferma con un duro rimprovero. Il mondo sotterraneo e invisibile dei tombaroli e il mondo in superficie e visibile di Spartaco e dei ricchi acquirenti sono legati indissolubilmente: sono il simbolo del sopra e del sotto di ogni mondo, delle molteplici facce della chimera. Solo un gesto irrazionale può spezzare il filo che congiunge questi universi paralleli: come quando Arthur a dispetto del volere degli altri tombaroli getta nel lago la preziosissima testa di un marmo che avevano trafugato insieme, per sottrarla al debito che li avrebbe legati per sempre a Spartaco. Solo sottraendosi alle leggi del capitale, ci si può salvare.

«Se ci fossero ancora gli etruschi non ci sarebbe tutto questo machismo in Italia»

Quando Italia si accorge che il lavoro che fanno Arthur e i tombaroli consiste nel violare un luogo che era stato in passato ritenuto sacro, cerca di impedirglielo. Italia però è attaccata da un’altra donna, che sta con il gruppo dei tombaroli. Questa donna chiama Italia «puttana»: si tratta di un personaggio femminile che per stare con gli uomini si è appropriata del loro machismo e ha iniziato a parlare il loro linguaggio.

La stessa donna che l’aveva insultata, tuttavia, si ritroverà poi a vivere con lei, in una casa occupata da donne libere, nella stazione abbandonata di Riparbella. In fondo, la rivincita delle donne era stata preannunciata da Melodie (Lou Roy-Lecollinet), braccio destro del ricettatore Spartaco che con un camera-look esemplare rompe l’illusione scenica e si rivolge al mondo che c’è oltre la cinepresa: «Se ci fossero ancora gli etruschi non ci sarebbe tutto questo machismo in Italia». Il machismo che volutamente domina nel film è in realtà frutto del retaggio culturale dei tombaroli. L’aggettivo usato per descriverli, nella canzone di Valentino Santagati che canta il film, è «poveri». Non si tratta solo della frugalità dei loro costumi, ma di una miseria interiore: gli uomini sono vittime del loro stesso maschilismo, sono ossessionati da qualcosa che non hanno. La loro chimera è una dolcezza, una relazione vera che non riescono ad avere.

Tutti i personaggi cercano qualcosa. Per Arthur e Italia è la ricerca di un senso di appartenenza e sarà questo ad unirli. Entrambi ‘stranieri’, provengono da un mondo altro e parlano una lingua ibrida e diversa che non è la loro lingua madre, ma nemmeno quella locale. La stretta connessione che si creerà tra i due non ha bisogno di essere tradotta: bastano i gesti e un nuovo linguaggio, unico, che si crea solo tra anime affini. L’alternarsi dei dialoghi in lingue diverse (italiano regionale, inglese, portoghese, tedesco e francese) e diversi registri (dal linguaggio colorito di doppi sensi dei tombaroli del Centro Italia, fino all’accento settentrionale del ricco Spartaco) racconta di mondi che, come in una cantilena popolare, fanno capolino e rimarcano l’eccezionalità di ognuno. Rohrwacher suggerisce allo spettatore che perdersi e ritrovarsi è un processo che va incontro anche alla commistione di linguaggi. Coabitare significa anche questo.

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Fotogramma di: La chimera © 2023 Alice Rohrwacher/Tempesta, Rai Cinema, Ad Vitam, Amka Films Production

Ognuno ha la sua ‘chimera’

In una delle scene più significative del film, Arthur cammina per una via. Lo osserviamo in primo piano e dietro di lui, trasportati da un trattore, il gruppo di abitanti e tombaroli locali che si agitano e fanno versi gutturali, indossano maschere grottesche. A differenza loro Arthur non indossa altro che la propria maschera: è vestito da se stesso. Attraverso una regia intensa e delicata, Rohrwacher approda, attraverso la metafora della chimera, alla scoperta di uno dei più mostruosi tratti umani: l’eccezionalità di ogni individuo. Infatti, così come la chimera è composta da parti del corpo di animali diversi, allo stesso modo gli uomini sono la somma di differenti esperienze, luoghi, linguaggi. E solo chi è consapevole della propria unicità, allora è in grado di preservarla.

Tutti questi personaggi sono in realtà, come Arthur, appesi: sospesi tra due mondi, inseguono ognuno la propria chimera. Flora non distingue la vita al di qua da quella al di là, ed è convinta che sua figlia Beniamina, l’amore perduto di Arthur, non sia davvero morta. Italia cerca un posto in cui il suo canto non sia più giudicato ‘stonato’, e al contempo un luogo in cui essere libera senza dover nascondere più la propria maternità. Arthur è alla perenne ricerca di una connessione che lo riporti insieme a Beniamina, in un luogo in cui le due dimensioni di luce e tenebra siano tenute insieme dallo stesso filo rosso che congiunge e salva. Un luogo che, tuttavia, solo chi vuole essere salvato può raggiungere. Arthur, alla fine della sua esperienza in un mondo sdoppiabile e pluridimensionale, si configura come l’Orlando calviniano nel romanzo Il castello dei destini incrociati: «Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro».

La discesa negli inferi oscuri dell’animo umano si è compiuta, ma la porta d’entrata non corrisponde a quella d’uscita. Il filo rosso porta a un altrove, inimmaginabile, fatto di luce. A suggellare l’entrata in una nuova eterna dimensione è la canzone Gli uccelli di Battiato posta prima dei titoli di coda: anche Arthur ha cambiato «le prospettive al mondo», ed è volato via. ♦︎


L’illustrazione in copertina è tratta dalla locandina ufficiale del film illustrata da Fabian Negrin

Rebecca De Vecchi
Amo la provincia, i libri della biblioteca e il caffè d'orzo. Scrivo poesie. Colleziono tazze commemorative della Regina Elisabetta II. Sono un'inguaribile romantica. Il mio sogno è tornare indietro nel tempo per frequentare i caffè letterari nella Parigi degli anni '20.

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