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La mia vita si divide in due parti. Nella prima parte, alla domanda “Hai dei rimpianti?” non so da dove cominciare. Nella seconda, l’unica cosa che so è che mi merito un po’ di tempo.

Avevo letto da qualche parte che il modo migliore per catturare una scimmia in Indonesia fosse mettere un’arancia in una grossa zucca appesa a un albero. La scimmia si arrampica senza pensarci troppo, ci infila la zampa, afferra il frutto e al momento di tirarlo fuori non riesce, è incastrata. Ciò di cui non si rende conto è che, attorno a lei, ci sono decine di altre arance che aspettano di essere raccolte: potrebbe semplicemente lasciar andare la presa e arrampicarsi su qualche altro albero. Sapete già come va a finire la storia: la scimmia è più testarda di un toro ascendente leone e non intende darla vinta a nessuno.

Chiamiamola libertà: quella che la scimmia avrebbe di arrampicarsi altrove, di dedicarsi a passatempi meno complicati. Ma in una storia come questa, assurda sin dal suo principio, la libertà potrebbe anche essere quella di scegliere un frutto succoso e irresistibile, aggrappandosi a un desiderio che impedisce di comprendere la realtà per quello che è. Meglio così, o meglio mollare la presa e tornare a terra sconfitta? A me piace pensare che la nostra protagonista sia in realtà molto più furba di quello che pensiamo, anzi, che sappia esattamente quello in cui si è cacciata. Io stessa, in qualità di essere umano, ho un obiettivo nella vita: la consapevolezza delle mie decisioni, più o meno brillanti, ma pur sempre frutto della mia libertà di pensiero. Detto fra noi, amo fare il contrario di quello che mi viene detto. Perché la libertà ha il gusto di una torta rovesciata all’arancia.

Ventidue anni fa arrivavo alla stazione centrale di Milano dopo un viaggio in pullman durato venti ore. Avevo sei anni, un geniale senso dell’umorismo che nessuno capiva (e che tutt’ora le persone che mi stanno intorno faticano a capire), una ancora vacillante conoscenza della lingua italiana (la stessa lingua che oggi la fa da padrona nei miei sogni e incubi), ed ero entusiasta e distrutta al tempo stesso. Non vedevo l’ora di sperimentare quel mondo nuovo di cui mi avevano tanto parlato, di assaporare la libertà di un paese occidentale, fra coni di gelato alla fragola e succhi di frutta che non sapevano di caramelle frizzanti. Ancora non lo sapevo ma, più che quel viaggio infinito da casa mia fino al mondo moderno, a stancarmi sarebbero stati gli anni a venire. Così pieni di certezze distrutte e disillusioni. 

Andavo avanti come l’acrobata circense che pochi mesi prima avevo visto nella mia piccola città in Transilvania. Lui, in sella alla sua moto, a conquistare coraggio dal pubblico mentre sfidava la gravità su un sottile filo orizzontale sospeso in aria. Io, a combattere l’immagine che avevo di me, qui e là, allora e ora, fra il fiato sospeso di mia madre e la speranza dura a morire di mio padre. Della me di allora, oggi, solo l’amore viscerale per la creatività e quella profondità che, ahimè, in un mondo così incline alla velocità e alle forme geometriche perfette, sembra voler continuare ad allontanarmi giorno per giorno dalle aspettative altrui. Mi ci è voluto tanto per accettare il passaggio del tempo e per oltrepassare quella realtà in cui tutto sembrava difficile. Non perché fosse l’universo a complicare le cose, ma io stessa, con mille domande che nessun altro si poneva. Come la scimmia indonesiana, anche io ero concentrata su un unico frutto, senza accorgermi che la vita andava comunque avanti, con o senza di me.

A sei anni, l’unico mio chiodo fisso era “Perché nulla è come prima?”. Guardavo vecchie fotografie, osservavo i miei genitori adattarsi a un nuovo mondo, la mia mente si sdoppiava pur di riuscire a vedere la normalità in una realtà diversa, fatta di compiti in una lingua che non avevo mai parlato, nuovi tragitti da scuola a casa, nuovi vicini di casa, nuovi amici, nuovi pasti, nuovi orari. Qualunque evento, piccolo o significativo, si trasformava in un simbolo nuovo, un’ennesima dimostrazione del fatto che tutto quello che avevo considerato stabile e sicuro si stava lentamente sgretolando. O forse, non era mai esistito, era soltanto un riflesso che rimbalzava sui miei occhi e in un lampo scompariva, lasciandomi sola con mille domande.

Arriva per tutti quel momento in cui ci si interroga sulla propria identità. Cosa ci rende diversi dalla nostra famiglia, com’è possibile capire se siamo chi siamo destinati a essere o chi vogliamo essere. È il periodo di prova come esseri umani, della durata di qualche decina di anni: può sembrare ingiusto, ma è sicuramente necessario per entrare nel mondo degli adulti. Alla me stessa di sei anni, però, tutte queste domande pesavano più del necessario. Mi pesava non capire perché la mia famiglia, da sempre numerosa e unita, si era ridotta a poche unità su cui potevo veramente contare. Perché le persone mi chiedevano “Come stai?” ma non ascoltavano mai la mia risposta. Perché gli amici con cui ero cresciuta, fra braccialetti intrecciati a mano e segreti condivisi, avevano smesso di salutarmi e di invitarmi ai loro compleanni. Perché il tempo passa, si porta con sé ricordi, persone, luoghi. E io non posso fare nulla per impedirlo.

Tanti anni sono passati da allora. Sono diventata adulta, ho un lavoro, una casa, una famiglia, una mente i cui ingranaggi non smettono mai di girare. E ancora adesso mi domando se sono diventata la persona che ero destinata a essere, o quella che ho sognato e scelto di essere. Come animale pensante, mi nutro di domande, mi rendo conto che non posso fare altro, anche se i cassetti stracolmi della mia mente stanno iniziando a svuotarsi, per fare spazio a quello che ancora deve venire. E no, il fatto di avere una risposta a queste domande non implica affatto che io smetta di pormele.

La mia libertà, però, l’ho conquistata. Sono stata anche io una scimmia appesa a un frutto impossibile da cogliere, ho rischiato anche io di rimanere catturata da pensieri fissi che non portano da nessuna parte. Alla fine ho capito: posso essere la scimmia, il frutto, il seme, ma non sarò mai l’intero giardino, tanto vale accettarlo e guardare avanti. ♦︎


Foto di Anita Jankovic su Unsplash