Non ricordo con esattezza il giorno esatto e neanche che stagione fosse. Quello che però la memoria mi consente di ricordare, oltre l’essere al primo anno di Università, era l’aula in cui mi trovavo e soprattutto la slide proiettata che avrebbe cambiato per sempre la mia percezione riguardo il cibo. Già da tempo mi interessavo al tema, tanto da scegliere un corso di laurea sull’approfondimento dei sistemi alimentari così da poter imparare tutto riguardo le filiere del settore. Quel giorno, al corso di Tecnologie Alimentari, mi ritrovai attonita. Il tema trattato riguardava i cicli riproduttivi di una vacca, e dava specifiche indicazioni riguardo i mesi in lattazione e quanto tempo fosse necessario prima di poter nuovamente inseminare l’animale per farlo partorire di nuovo e avere così altro latte da poter mungere.
Così, solo in quel momento, a vent’anni e mezzo, mi rendevo conto che le mucche non producono latte come caratteristica innata ma, proprio come gli esseri umani, iniziano a produrlo solo in seguito una gravidanza.
La mia sorpresa non fu tanto nel realizzare che tutte le vacche per esser munte devono essere madri, quanto dar per scontato che il latte degli animali di cui facciamo uso venisse da loro prodotto naturalmente. Com’era possibile che in vent’anni, avessi dato per scontato il latte che bevevo tutte le mattine?
Quella sensazione di straniamento tornò qualche lezione dopo, quando nuove slide mostrarono come, dal sangue della gallina nel suo ovaio, inizi a formarsi l’uovo. Solo anni dopo quel momento avrei scoperto che ciò che provavo era stato studiato e teorizzato, e che non ero certo la prima a rendersi conto di quanto poco sappiamo riguardo la filiera alimentare. Un’ignoranza nel senso più puro del termine, come definita dalla Treccani: «l’ignorare determinate cose, per non essersene mai occupati o per non averne avuto notizia».
Non solo diamo per scontato il cibo, ma nessuno ci ha mai insegnato davvero da dove provenga. L’educazione alimentare è quasi assente nei percorsi scolastici italiani, e il divario tra i cittadini e l’agricoltura si è ampliato sempre di più con l’urbanizzazione incontrollata degli ultimi anni.
C’è una netta linea d’ombra che separa la nostra tavola dalle filiere che la precedono, e la tovaglia viene illuminata solo nella porzione che ci deve riguardare. Tra i molti studi scientifici che hanno analizzato questa inconsapevolezza collettiva, alcuni approfondimenti si sono focalizzati su come questa distanza si amplifichi maggiormente quando consumiamo prodotti animali, definendo questo fenomeno meat paradox (paradosso della carne). Cercando di venire a capo di questo paradosso (analizzato molto bene, ad esempio, da Francesca Grazioli in Capitalismo Carnivoro e Melanie Joy in Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche) alcune attiviste e attivisti anti-specisti – cioè che si oppongono al pregiudizio secondo cui la specie umana sia superiore alle altre specie animali – hanno provato a dimostrarlo conducendo alcuni esperimenti sociali in Europa , Australia e Stati Uniti, offrendo per strada su un bel vassoio, bocconcini gratis ai passanti, che prendevano l’assaggio senza chiedere informazioni e dando feedback molto positivi sul sapore delizioso. Solo allora veniva detto loro che si trattava di carne di cane, allevato all’aperto con alti standard di benessere animale, e macellato dignitosamente. I video che raccontano questi esperimenti mostrano il disgusto dipingersi sul volto di chi ha appena ingerito quel cibo: qualcuno sputa, altri insultano chi aveva offerto l’assaggio, tutti provano sdegno all’idea di aver mangiato carne di cane. All’apice del disgusto vengono tranquillizzati che non è vero, e che anzi tra gli ingredienti non ci sono proprio animali: solo legumi e funghi. Il grande sollievo immediato lascia presto il posto ad un dilemma nei passanti (il dilemma dell’onnivoro, come direbbe Michael Pollan): perché ci siamo disgustati così tanto sapendo che era un cane, ma se fosse stato un maiale, un pollo o un altro animale a cui siamo abituati, lo avremmo consumato senza alcun pensiero?
Il meat paradox è proprio questo, e rientra in parte nel fenomeno della dissonanza cognitiva, cioè il «rapporto di incongruenza tra atteggiamenti cognitivi dell’individuo (conoscenza, opinione ecc.) ed elementi dell’ambiente esterno». La nostra percezione di cosa è giusto e cosa non lo è è influenzata da tantissimi fattori esterni tra cui l’abitudine e la nostra cultura. Di conseguenza, proviamo più empatia per certi animali piuttosto che altri, empatizziamo più per un cane randagio per strada che per un bovino in gabbia per tutta la vita. Per questo le persone sono più propense a donare soldi (o a fare volontariato) per un canile che si occupa di animali abbandonati, piuttosto che per un ente che si occupa di migliorare il benessere negli allevamenti intensivi.
Queste dinamiche non riguardano solo i prodotti di origine animale: è complesso fermarsi a riflettere sulle distorsioni presenti in qualsiasi filiera, con il caporalato come esempio emblematico. Raramente, mentre acquistiamo un ingrediente, ci soffermiamo a chiederci se le mani che lo hanno coltivato e raccolto abbiano subito sfruttamento o se le pratiche agricole adottate fossero sostenibili per l’ambiente. È una domanda difficile da porsi e, spesso, impossibile da risolvere semplicemente leggendo un’etichetta. Si apre così anche una questione di fiducia: tendiamo a dare per scontato che il cibo sugli scaffali dei supermercati, nei negozi o nei ristoranti sia privo di sofferenza. E nella maggior parte dei casi, non andiamo oltre.
Ma come facciamo a barcamenarci nell’oscurità? Se per Conrad superare la linea d’ombra rappresenta la presa di coscienza della propria indipendenza, da superare per sfidare un confine oltre il quale non ci si è mai spinti, a chi tocca far luce sulla nostra ignoranza alimentare?
Nell’esempio del consumo di animali, si distingue inoltre tra l’evitare la dissonanza (dissonance avoidance) eliminando il legame animali-carne, cioè non pensando al legame tra amare gli animali e mangiarli allo stesso tempo, e la riduzione della dissonanza (dissonance reduction) cioè riconoscere il conflitto interiore, ma ridimensionarlo per continuare ad agire come si è sempre fatto.
Oggi siamo circondati da così tante cose di cui non abbiamo piena consapevolezza che sarebbe impossibile colmare l’ignoranza su tutto ciò con cui interagiamo quotidianamente. Difficilmente conosciamo le componenti dei nostri dispositivi tecnologici, né sappiamo chi ha estratto i minerali al loro interno o da dove provengano. Il cibo, però, ha la caratteristica di essere stato vivo (sia che fosse animale o vegetale) e di rendere vivi noi.
Ma qual è l’interesse di un consumatore medio per superare la linea che gli insegna se il salmone in vendita è stato allevato da una multinazionale dentro una gabbia oceanica sovraffollata e imbottito di antibiotici e nutrito con mangime addizionato di colorante (altrimenti sarebbe grigio), o se invece ha risalito le correnti verso l’Oceano Pacifico, consumando crostacei e alghe, ed è stato infine vinto da un pescatore che ha potuto così garantire un reddito per la sua famiglia?
Non è tra le priorità del consumatore medio. Il suo pensiero principale riguarda il fatto che: salmone è buonissimo e c’è tutto l’anno ad un prezzo oggi accessibile. Sapere che prima di trovarlo cubettato sul pokè era un animale vivo, non cambia nulla, anzi il senso di colpa peggiorerebbe l’esperienza.
E anche se lo sapessimo tutti, cambierebbe qualcosa?
I fumatori questa linea la possono superare ogni volta che prendono una sigaretta dal pacchetto e vedono l’immagine di una possibile conseguenza di quell’azione: persone intubate, polmoni neri, gengive marce.
A chi spetta eliminare quella linea d’ombra che ci distanzia da chi produce ciò che mangiamo?
Nella nuova visione dell’Unione Europea per il cibo e l’agricoltura, pubblicata a fine Febbraio 2025, il benessere animale e l’origine del cibo vengono citati come un tema da affrontare perché «le nuove aspettative della società nei confronti dell’alimentazione stanno modellando il comportamento dei consumatori» e che la Commissione Europea prenderà in considerazione un’etichettatura mirata in relazione al benessere degli animali to address societal expectations, per rispondere alle aspettative, alle esigenze della società.
Ma quindi la linea d’ombra va superata solo perché la società lo impone?
La distanza che ci separa dai braccianti sfruttati, dalla sofferenza negli allevamenti e dalla pesca intensiva non dovrebbe esistere affatto, anziché dover essere oltrepassata solo per poter scegliere con consapevolezza. ♦︎