La caccia alla volpe della Repubblica Popolare Cinese in Europa attraverso una rete segreta e illegale di stazioni di polizia d’oltremare.
Eccoci qui, cari lettori e care lettrici, nuovamente riuniti al nostro tavolo riservato. Oggi discuteremo di un fatto parecchio controverso che nelle scorse settimane ha suscitato parecchie chiacchiere in tutto il Vecchio Continente: la presenza, assolutamente illegittima, di stazioni di polizia cinesi in territorio sovrano comunitario.
Per mettere a fuoco la situazione in modo ottimale dobbiamo premettere che il numero di cittadini cinesi nell’Unione Europea è da anni in costante aumento. In Italia la comunità cinese conta quasi 310.000 cittadini residenti, ai quali si aggiungono circa 700 taiwanesi.
Fatta questa premessa aggiungiamo che la Cina è indisposta a cedere in materia di democrazia e libertà personali; il fatto poi che tanti suoi cittadini preferiscano trasferirsi all’infuori della muraglia l’ha indotta ad incrementare la propria presenza all’estero.
L’incontro a L’Aia e l’accordo bilaterale
Tutto incomincia il 24 Settembre del 2015, quando durante la V Conferenza dei Capi della Polizia dei Paesi dell’Unione Europea prende parola il rappresentante di uno stato non propriamente comunitario. Indovinate quale? Esatto, la Cina.
Il rappresentante in questione, direttore generale del dipartimento per la cooperazione internazionale del Ministero della Pubblica Sicurezza cinese, ha sfruttato l’occasione ed è riuscito a siglare un accordo bilaterale proprio con quello Stato che risulta essere il terzo in Europa per numero di cittadini cinesi: l’Italia. Così la polizia cinese, d’intesa con le autorità italiane, farà dei pattugliamenti congiunti in alcune zone d’interesse turistico del Bel Paese.
Fin qui tutto bene direte voi, ma dobbiamo tenere presente che questo fatto è stato molto rilevante se non addirittura anomalo a livello geopolitico. Sono infatti pochissimi i Paesi che, all’interno del mondo Occidentale, possono vantare una collaborazione con la polizia di uno Stato non democratico come la Cina. Questi pattugliamenti vennero poi sospesi a causa della pandemia e mai più ripresi; anche se in teoria e in pratica non sono ancora stati aboliti: un po’ come la leva militare, c’è ma non c’è.
L’inchiesta e il report: si scoprono le carte
Facciamo adesso un piccolo balzo in avanti fino alla fine del 2022, quando un’inchiesta giornalistica de Il Foglio svela la presenza di una vera e propria stazione di polizia cinese d’oltremare operante in Italia. A pochi giorni di distanza tocca all’ONG spagnola Safeguard Defenders, che pubblica un altro report in cui si evidenzia la presenza di altre 54 stazioni di polizia cinesi d’oltremare in territorio Europeo di cui almeno 11 operanti in Italia. La cosa che fa particolarmente rabbrividire è che questo report mette in correlazione la presenza di queste stazioni di polizia abusive con ben 230.000 rimpatri volontari.
Ora non credo ci sia bisogno di specificare quanto sia effettivamente dubbia la volontarietà di questi rimpatri; le autorità cinesi, però, tranquillizzano su queste stazioni di polizia: si tratta esclusivamente di uffici amministrativi. Atti, quindi, ad assistere i cittadini cinesi in mere pratiche burocratiche.
La vera funzione delle Stazioni di Polizia
La domanda sorge spontanea: se esistono i consolati, nati appositamente per fornire assistenza amministrativa ai cittadini che si trovano all’estero, perché hanno creato questi uffici?
E soprattutto, perché di questi uffici le autorità comunitarie e italiane non ne sono mai state a conoscenza?
Al momento non ci è dato saperlo. Ma nel caso venisse appurato che queste stazioni di polizia d’oltremare siano delle stazioni di polizia a tutti gli effetti (quindi ben più che semplici sportelli di assistenza amministrativa) si tratterebbe probabilmente di una delle più gravi e volute violazioni del diritto internazionale compiute dal Dragone. Della prova per eccellenza che il Governo Cinese, assolutamente indifferente verso la libertà e il rispetto della sovranità nazionale degli altri Paesi, si sia esposto a tal punto da tirar su una vera e propria struttura parallela a quella diplomatica (quindi riconosciuta e autorizzata) dedicata alla sua attività prediletta: la caccia alla volpe. Ovvero la ricerca, l’intimidazione e il rimpatrio di tutte quelle persone considerate dissidenti. Persone accusate di crimini politici in patria e fuggite oltre la Grande Muraglia non tanto per motivi economici, quanto per una pura questione di sopravvivenza.