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La fame mi tornò in quel momento, quando ti sei voltato per chiedermelo. Vuoi?

Due minuti dopo l’avevi già mangiata, e mi avevi appena annunciato che saresti andato a farti una doccia. Io ero rimasta immobile sul tuo letto, vestita di tutto punto, tra le lenzuola blu insensatamente aggrovigliate e il bagaglio già chiuso. Stavo per ripartire, ma mi sembrava di non essere mai arrivata.

Neanche uno spicchio? Avevi detto così. Intanto, l’avevi scelta, proprio lei, mentre le altre erano rimaste nel cestino al bordo del letto, con me seduta accanto: non esistevo già più. Ero rimasta lì, a guardare le tue mani muoversi mentre le strappavano via la scorza con la stessa vorace impazienza con cui, qualche giorno prima, mi avevano tolto i vestiti.

Sul viaggio in treno che mi aveva portato da te, avevo dormito quasi tutto il tempo. Quando avevo aperto gli occhi, mi ero accorta che una signora mi stava guardando. Aveva un viso paffuto e buono e mi era venuto spontaneo sorriderle. Ma lei non aveva ricambiato. Mi aveva indicato il naso e lì per lì non avevo capito. Abbassando lo sguardo, mi ero accorta che aveva ragione. Il sangue era colato ovunque, dalle narici al mento, fin sulla maglia bianca con una scritta sciocca che avevo addosso. Mentre mi passava un fazzoletto, mi domandò dove stessi andando. Glielo dissi e questa volta fu lei a sorridere: «Dicono che sia il centro del mondo».
Quando fui vicina all’ultima fermata, andai in bagno per indossare una maglia pulita, e prendere due pastiglie di Tavor. Guardavo il puntino di google maps avvicinarsi sempre di più a quello della destinazione. Ero di buonumore. Mentre fuori dal finestrino il paesaggio scorreva contenendo tutte le possibilità, ascoltavo in loop la stessa canzone, il ritornello che ripeteva sempre le stesse parole.

Puoi finger bene, ma so che hai fame.

Io non avevo fame. Eppure non mangiavo da giorni. Avevo scoperto che il cibo non mi saziava più. L’unica cosa che ero disposta a inghiottire era qualsiasi sguardo si soffermasse su di me abbastanza a lungo da farmi sentire vista, e meno sola. Mi dava una sensazione momentanea di sazietà, che bastava. Era meglio guardare, che essere guardati. Tu lo sapevi, quando mi avevi vista scendere dal treno.
Mi avevi invitato tu, e voleva dire solo una cosa: mi volevi ancora. Ti avevo mandato un messaggio al termine di una notte insoddisfacente e proprio mentre lo stavo per cancellare, la tua risposta era arrivata, precisa come un filo dentro a un ago.

Una settimana dopo eccomi lì, mi ero ritrovata nel corridoio fermo agli anni Sessanta di casa tua, a chiederti che fine avessi fatto. Che importanza ha? Era vero, che importanza aveva, se adesso avevo la tua erezione premuta contro il mio ombelico a significare che volevi me.
Sei venuto poco dopo, mentre ti davo le spalle, e osservavo i miei vestiti sparpagliati a terra.
Ti ho detto che mi dispiaceva perché non ti avevo visto in faccia. Tu hai continuato a disegnare con le dita ghirigori sulla mia schiena.
Erano passati quattro giorni da quella scopata e non era più successo. Mi era sembrato, anzi, che avessi cercato in ogni modo di evitare che accadesse. Era il modo in cui avevi spento il mozzicone sul fondo della coppetta, sui resti di gelato sciolto. Sono sazio, non ne voglio più, avevi detto.

Quella sera, quando ci sedemmo a tavola mi sforzai di prendere la forchetta in mano. L’importante era tagliare tutto in piccoli pezzi. Mi stavo convincendo a infilzare una carota, a fingere che andasse tutto bene, quando avevi detto che ti mancava il fiato. Ti eri alzato lasciando il tovagliolo sul tavolo ed eri passato davanti al quadro con le montagne prima di sparire nel corridoio. Avevo appena inghiottito il primo boccone, nel momento esatto in cui ti sentii vomitare.

Quando il giorno dopo rientrammo, mentre scendevi dalla moto, avevi detto di avere voglia d’arancia. Ricordo di averti guardato speranzosa, mentre incidevi col pollice la sommità del frutto: avevamo ancora un lungo pomeriggio, prima della mia partenza. Staccavi uno spicchio alla volta, la polpa turgida e inerme che sgocciolava sulle lenzuola. Ma non è successo nulla e quando sei uscito dal bagno eri pronto per riaccompagnarmi. Tu non ti vedi, mi hai detto durante il viaggio in macchina verso la stazione. Era vero, non mi vedevo. E questo è ciò che succedeva a dipendere da uno sguardo.

Quando salii sul treno del ritorno, pensai che finalmente mi era tornata la fame. Arrivata a casa, riempii il cassetto basso del frigo di arance.

Tre settimane dopo, ho scoperto di essere rimasta incinta. ♦︎


Fotografia di Rebecca De Vecchi