Su YouTube c’è un video dove John Green (sì, l’autore di Colpa delle stelle) riesce in 14 minuti a spiegare con tono divertente e straordinariamente brillante cos’è la Grande Depressione americana, chi e che cosa l’ha causata, e l’azione politica intrapresa dalla Casa Bianca per sconfiggerla. John Steinbeck, nel suo Furore, si prende invece 464 pagine per evocare la crudeltà della siccità (causata dalla famosa Dust Bowl delle Grandi pianure americane) e suscitare empatia per il disperato movimento migratorio dei lavoratori agricoli verso la speranza di una California più fertile. Persino la fantascienza di Christopher Nolan prende ispirazione dalle tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali del 1931 al 1939, per ideare lo scenario distopico di Interstellar.

 Dorothea Lange, invece, impegnò dieci anni della sua carriera per narrare, attraverso l’arte della fotografia, i racconti di vita e lavoro dei contadini americani colpiti dalla povertà e dalla crisi economica degli Stati Uniti. Racconti di vita e lavoro è proprio il titolo che CAMERA, il Centro Italiano per la Fotografia di Torino, ha deciso di assegnare alla vasta collezione di fotografie di Lange, ospitata per quasi tre mesi nel capoluogo piemontese. La mostra dedicata all’americana conta circa 200 fotografie, e si concentra sul periodo dell’artista che coincide con la sua affiliazione alla Farm Security Administration (FSA), un’agenzia governativa promossa dalla presidenza Roosevelt. Con l’applicazione del famoso programma di riforme economiche e sociali del New Deal, la FSA nasce nel 1935 con l’obiettivo di raccogliere testimonianze fotografiche della povertà rurale. I più rinomati fotografi del momento, tra cui Walker Evans, Ben Shahn, Russell Lee, Willard Van Dike, Jack Delano, Carl Mydans Marion Post Wolcott, e Dorothea Lange, sono ingaggiati per un’operazione di fotografia documentaristica, che dà alla luce una raccolta di circa 280 mila fotografie. 

Rondal Partridge.Dorothea Lange, fotografa della Resettlement Administration California, 1936

Il direttore artistico di CAMERA Walter Guadagnini e la curatrice della mostra Monica Poggi hanno scelto di allestire sei sale con una suddivisione tematica per presentare il lavoro di Lange. L’attività della fotografa che racconta la Grande Depressione comincia nel 1935, quando Lange e il secondo marito Paul S. Taylor, economista della University of California di Berkeley, testimoniano, una con le immagini e l’altro con le parole, le situazioni di indigenza americana attraverso la redazione di album dallo stile fortemente compilativo. Le fotografie di Lange sono accompagnate da relazioni e bilanci di stampo economico e da richieste scritte per una pronta azione del Congresso, affinché la politica rivolga le proprie attenzioni alla situazione della disoccupazione su larga scala, come la costruzione di alloggi per i mezzadri migranti, esuli in California. Il lavoro dei coniugi confluirà poi nel 1939 in un’opera unica, intitolata An American Exodus. A Record of Human Erosion. La coppia crede nella potenza combinatoria di immagini, titoli e testi, per costruire un documento complesso di testimonianza sociale: appunti sul campo, testi di canzoni popolari, estratti di quotidiani e le parole degli stessi migranti costruiscono il tessuto dell’opera.

Dorothea Lange. Al via gli aiuti per i sussidi di disoccupazione, San Francisco, California,1938

La produzione meno conosciuta di Lange è legata al suo lavoro nelle metropoli di New York City e San Francisco, dove prima dell’affiliazione alla FSA è stata notata per i suoi ritratti urbani. I protagonisti di queste immagini sono uomini in giacca e cravatta che vagano per la città, in coda fuori dagli uffici dell’agenzia del lavoro, la State Employment Service, in attesa dei sussidi governativi di disoccupazione. Ci sono i ‘soldati’ dell’Esercito della Salvezza, un’organizzazione internazionale di stampo evangelico, che durante la Depressione apre centri per garantire cibo e riparo alla popolazione metropolitana più indigente. Lange fotografa le silhouette di uomini stanchi appoggiati ai muri, o addormentati in posizione fetale sui marciapiedi del quartiere Skid Row di San Francisco, termine chiave per descrivere quei quartieri urbani che somigliano terribilmente alle odierne baraccopoli. Un’altra denominazione popolare di questi luoghi era Hoovervilles, etichetta politicamente indirizzata all’ex presidente Herbert Hoover. Dopo il crollo di Wall Street nel 1929 e l’incapacità di gestire la prorompente depressione, il partito Repubblicano non aveva avuto alcuna probabilità di essere rieletto nel 1932, lasciando spazio al democratico Franklin Delano Roosevelt.

Anche se tecnicamente gli agricoltori non sono presenti nei 12 milioni di disoccupati del 1933 (il censimento contava circa 123,2 milioni di abitanti negli Stati Uniti, e quasi il 25% della forza lavoro era disoccupata), Lange si riferisce al loro movimento migratorio verso ovest con la parola «esodo», che suggerisce la portata del fenomeno: si stima che l’Oklahoma perda 400,000 persone (18,4% della popolazione) nell’anno 1930, tra il 1935 e il 1939 una media di 6000 persone varcavano il confine dello stato della California, in entrata.

Dorothea Lange. In direzione Los Angeles, California, 1937.

Un’intera sala della mostra di CAMERA è dedicata infatti alle ‘giungle’, gli accampamenti improvvisati che punteggiano i bordi delle superstrade, direzione California. Uno scatto del 1937 inquadra due contadini che camminano verso Los Angeles: valigie alla mano e in spalla, costeggiano un fossato su cui troneggia un cartellone pubblicitario della Southern Pacific, che recita «NEXT TIME TRY THE TRAIN. RELAX». L’ambiguità subdolamente crudele della composizione dell’immagine potrebbe suggerire l’intenzione di Lange di comunicare con ironia amara l’ingiustizia e il paradosso della situazione dei viandanti, in cerca di fortuna nella ‘terra di latte e miele’.

Dorothea Lange. Coltivazione con la zappa nel sud Eutaw, Alabama, 1936.

Il lavoro di stampo fortemente sociale di Lange e Taylor si indirizza anche verso la popolazione del sud del Paese, e in particolare quella afroamericana: i due viaggiano nei Southern States per raccogliere testimonianze dalle terre delle piantagioni del cotone, dove la macchina della schiavitù era nata per sostenere l’economia, formalmente solo fino alla Civil War (1860-1865). L’Alabama, la Red River Valley in Louisiana, il Tennessee, il fertile Delta del Mississippi e la Black Belt sono ancora le terre del cotone, ma come spiega Taylor a introduzione delle fotografie di Lange «non è più una questione di razza». La povertà rurale colpisce anche i mezzadri bianchi, che un tempo non avevano bisogno di lavorare nelle piantagioni degli schiavi. A complicare la situazione ci sono anche le conseguenze dei grossi investimenti dei privati nella meccanizzazione degli utensili agricoli dei vicini seppur diversi anni ’20: in una piantagione vicino a Greenville, in Mississippi, ventidue trattori e tredici veicoli per la semina hanno sostituito centotrenta famiglie di mezzadri, che sono state costrette a cercare lavoro altrove. 

Seguii l’istinto, non la ragione; entrai in quell’accampamento bagnato e fradicio e parcheggiai la mia auto come un piccione viaggiatore. Vidi e mi avvicinai a questa madre affamata e disperata, come attratta da una calamita. […] Non le chiesi il suo nome o la sua storia. Mi disse la sua età: aveva trentadue anni. Mi disse che sopravvivevano mangiando le verdure congelate dei campi circostanti e gli uccelli che i bambini uccidevano. Aveva appena venduto le gomme della sua auto per comprare del cibo. Se ne stava seduta in quella tenda a casetta, con i suoi figli accalcati intorno a lei, e sembrava sapere che le mie foto avrebbero potuto aiutarla, e così lei ha aiutato me. C’è stata una sorta di parità.

Dorothea Lange. Popular Photography, Febbraio 1960. 

Dorothea Lange. Madre migrante. Nipomo, California, 1936.

CAMERA dedica una parete verde olivastro per presentare il pezzo più noto di tutta la collezione, Madre Migrante. Il titolo intero dell’iconica opera è in realtà Madre migrante. Raccoglitori poveri di piselli in California. Madre di sette figli. Età: trentadue. Si tratta di Florence Owen Thompson, un’operaia con il viso solcato da rughe di profonda preoccupazione, immortalata nel 1936 da Lange in un campo di piselli a Nipomo, in California, dove era accampata con la sua famiglia di sette figli. Immobile, tiene in braccio un neonato, altri due bambini le si ammassano sulle spalle, e la fotografa la inquadra da più angolature, concentrando tutta l’aura di disperazione che la donna sembra respirare.

Lange insiste per ottenere l’approvazione della madre migrante a divulgare quella che sarebbe presto diventata un’immagine simbolo di un paese esausto, fiaccato dalla fame e dalla povertà della Depressione. Il 10 marzo dello stesso anno il San Francisco News comincia a pubblicare alcuni degli scatti, dando inizio al circolo virtuoso del potere comunicativo che può avere un’immagine.

Dorothea Lange. La giovane evacuata Kimiko Kitagaki sorveglia i bagagli. Oakland, California, 1942.

Il percorso della mostra si conclude lungo il corridoio bianco di CAMERA, tappezzato di opere che fanno parte di un altro periodo della produzione di Lange, quello dell’affiliazione a un nuovo dipartimento federale. Creata ad hoc a seguito di un evento cardine della storia mondiale, l’attacco alla base navale di Pearl Harbor, la War Relocation Autority (letteralmente «Autorità per il trasferimento di guerra») è stata istituita nel marzo del 1942, a meno di tre mesi dal bombardamento. Con l’ordine esecutivo 9066,  Franklin Delano Roosvelt (l’unico presidente nella storia degli USA ad aver servito quattro mandati, dal 1933 al 1945) predispone il ricollocamento di tutti i nisei all’interno di campi di detenzione. Il termine giapponese significa seconda generazione: tutte le persone di discendenza giapponese, compresi i giovani nati negli Stati Uniti, sono allontanati dalle città limitrofe all’aere militare della costa pacifica (quella che affaccia in direzione delle Hawaii, sede dell’attacco). Circa 110.000 persone vengono condotte in campi di detenzione allestiti in zone abbandonate e semidesertiche, e Dorothea Lange, sotto la WRA, documenta le fasi dell’operazione, che perdurerà fino alla fine della guerra. Le fotografie raccolte all’interno del programma della WRA sono particolarmente preziose e delicate: il suo operato presso il Manzanar Relocation Center, è attentamente censuato dall’esercito, che le proibisce di inquadrare il filo spinato, le torri di guardia, e le impedisce di archiviare i negativi delle sue immagini. 

La narrazione della fotografa comincia a pochi giorni dall’emanazione dell’ordine nelle città occidentali: i suoi soggetti sono sfollati giapponesi di San Francisco, Oakland, San Lorenzo, in coda per i bus per l’evacuazione, sommersi dalle valigie. Lange disapprova pubblicamente l’operazione, e utilizza la sua arte come strumento di critica. Forse perché anche lei è emigrata di seconda generazione, figlia di genitori tedeschi, le viene estremamente facile evidenziare l’identità profondamente americana dei nisei: fotografa il Japanese American Citizens League gremito di giovani di discendenza giapponese con i jeans, gli stivali e il cappello texani, ragazzini intenti a sfogliare Funnies, un fumetto americano, e universitari occhialuti dall’aria inconfondibilmente americana.

Dorothea Lange. Un grande cartello con la scritta: Sono un Americano. Oakland, California, 1942.

Una delle immagini più significative è scattata a Oakland. Lange annota: «Un grande cartello con la scritta “Sono un americano” affisso sulla vetrina di un negozio […] l’8 dicembre, il giorno dopo Pearl Harbor. Il negozio è stato chiuso in seguito all’ordine di evacuazione delle persone di origine giapponese da alcune zone della costa occidentale. Il proprietario, laureato all’Università della California, sarà ospitato insieme a centinaia di sfollati nei centri della WRA per tutta la durata della guerra Oakland, California. 1942». 

La devozione e la resilienza alla luce delle scene più terribili che sono passate sotto gli occhi e attraverso la lente di Dorothea Lange la rendono non solo una grande artista, ma anche, soprattutto, una coraggiosa reporter: ha combattuto, durante tutti i suoi progetti, affinché le sue immagini avessero uno scopo informativo, con una chiara orientazione temporale e un contesto storico precisamente definito, oltre a una chiara finalità sociale.

Il suo lavoro ha acquisito il valore per cui oggi la riconosciamo in una riscoperta postuma dei suoi scatti, e come racconta Linda Gordon in un saggio dedicato alla raccolta di Lange come fotografia come sociologia dell’agricoltura, «nell’ottobre del 2005 la fotografia di uomini in una mensa dei poveri fu venduta all’asta per 822.400 dollari, a quel tempo il secondo prezzo più alto mai pagato per una fotografia. Lange avrebbe apprezzato il denaro (lei guadagnò molto poco in vita) e la fama (in vita fu particolarmente riconosciuta e apprezzata), ma sicuramente si sarebbe chiesta cosa significasse che quella fotografia di uomini affamati era diventato un bene di lusso».

Alla luce della vita e della carriera di Dorothea Lange, diventa un po’ più semplice cercare di rispondere all’estrema questione sull’arte: è fine a se stessa? Cosa ci dicono la commistione tra la perfetta geometria delle sue immagini, la potenza dei contrasti di luci e ombre, la sua bravura nel catturare l’essenza negli occhi della gente comune?

La gente dovrà pur fermarsi da qualche parte. Persino l’uccello ha un nido.

Destinazione Sconosciuta, 1939


Le fotografie presenti nel testo sono di Dorothea Lange, per gentile concessione di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia.

Sofia Calvo
Non so descrivermi perché non ho ancora ben capito chi sono, ma nel frattempo ho scoperto un paio di cose: che scrivere è l'unica cosa che mi soddisfa davvero, che amo i giochi di parole e i mercatini dell'usato, e che mi diverte intavolare discussioni facendo alle persone domande stupide, tipo "I serpenti hanno la coda?"

    You may also like

    Leave a reply

    Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

    More in Arte