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A fine ottobre 2023 è stato inaugurato a Barcellona il Museo dell’Arte Proibita (in catalano: Museu de l’Art Prohibit). Questa nuova istituzione culturale nata da una collezione privata, che ne costituisce il nucleo, al momento raccoglie oltre 200 opere: quadri, fotografie, sculture, installazioni e prodotti audiovisivi, che, nel corso della storia e ancora fino a ieri, sono state censurate per ragioni politiche, sociali o religiose e rimosse da altri centri d’arte. Tra gli artisti esposti compaiono i nomi di Francisco Goya, Gustav Klimt, Pablo Picasso, Banksy, Tania Bruguera… (non proprio degli scappati di casa, se avete notato). Sembrerebbe una sorta di arca di Noè, che salva e traghetta oltre il diluvio quelle espressioni artistiche di ieri e di oggi, ritenute non conformi. È un’iniziativa lodevole? Sì. Allora è una bella notizia? Non del tutto. Sarebbe meglio che non ce ne fosse più bisogno. Il fine è encomiabile, le cause che hanno reso necessaria la nascita di questa collezione non altrettanto. Più che un’arca è un ghetto, più che una riserva uno zoo in cui sono rinchiusi animali che non potevano o non possono più vivere in libertà. È paradossale, ma, contrariamente a quanto ci si augura per qualsiasi altra istituzione museale, speriamo che, in questo caso, non cresca ulteriormente il numero delle opere esposte, né si renda necessario il moltiplicarsi di spazi come questo.

Certo oggi nessuno brucerebbe più i taccuini in cui Turner aveva raccolto i suoi disegni erotici, come pareva avesse fatto John Ruskin, critico d’arte e suo curatore testamentario – quelle opere furono invece ritrovate ed esposte – né uno Shiele rischierebbe più la condanna in tribunale per le sue tele ritenute pornografiche, come avvenne nel 1912. Ma non illudiamoci di essere particolarmente progrediti o disinvolti. Internet ci offre un accesso potenzialmente illimitato sia all’arte che alla pornografia, eppure non tutti sono riusciti a cogliere la differenza tra le due.

Nel 2018 il Corriere della Sera fu inondato da centinaia di commenti da parte di utenti indignati per un suo post su Facebook in cui compariva L’origine du monde, il quadro di Courbet esposto al Musée D’Orsay di Parigi, in cui sono raffigurati in modo realistico i genitali di una donna, di cui non si vede il volto. Già nel 2011 la piattaforma aveva cancellato il profilo di un utente francese, che ne aveva pubblicata la foto e, nel 2015, per lo stesso motivo, aveva bloccato per 24 ore la pagina di Vittorio Sgarbi. Da una parte la pruderie umana, dall’altra l’infimo moralismo di un algoritmo che vive dei nostri stessi pregiudizi e, avendo ancor meno capacità di discernimento, non riconosce un quadro come un’opera d’arte, ma come un’oscenità e lo cancella in una sorta di damnatio memoriae digitale. In passato quei manufatti artistici che non erano più considerati in linea con la sensibilità del tempo, ma non venivano distrutti, o perché di grandi maestri, o perché difficili da rimuovere dalla sede per la quale erano stati creati, venivano alterati negli aspetti ritenuti critici. Credo tutti noi abbiamo sorriso almeno una volta, trovando che la foglia di fico sui grandi nudi del passato fosse un intervento bigotto, miope e un po’ patetico.

A questo proposito è curioso il rapporto dialettico contraddittorio, che nei secoli ha legato il potere ecclesiastico e l’arte: se Giulio II si era affidato a Michelangelo per gli affreschi della Cappella Sistina, Pio IV, soltanto un anno dopo la morte del Buonarroti, ordinò e a Daniele da Volterra, passato alla storia col soprannome di «Braghettone», di vestire le figure che il maestro aveva ritratto nude sulla volta. Nel tempo intercorso il Concilio di Trento aveva condannato la nudità nell’arte religiosa e, come abbiamo già visto, Papa Paolo IV aveva creato l’Index Librorum Proihibitorum. Né Agatha Christie, né Ian Fleming o Roald Dahl sono mai comparsi nell’Indice dei libri proibiti e, come Michelangelo, mai avrebbero immaginato che i propri capolavori venissero rimaneggiati omettendo, riscrivendo o coprendo con una foglia di fico quel che poi ad altri sarebbe parso osceno.

In genere, si dovrebbe fare uno sforzo interpretativo per capire un’opera e non uno sforzo per adattarla alle aspettative del fruitore, ma la storia insegna che l’editing selettivo per rendere le parole usate in letteratura conformi a determinate mentalità è sempre stata un’arma. Cambia la forma, il colore e la misura della foglia, cambiano la posizione e i motivi per cui la si mette o la si toglie e il potere di decidere può finire anche nelle mani di chi ha orizzonti valoriali discutibili.

Negli anni ’30 ebbero grande diffusione in Italia i romanzi gialli, tra cui quelli di Agatha Christie. La censura fascista intervenne qua e là, cambiando la nazionalità di ladri, assassini e di quelle figure negative o ridicole, che l’autrice aveva scelto fossero di origini italiane, facendole diventare per esempio e non a caso ebrei, in riscritture antisemite. Allo stesso modo, per motivi ideologici e per timore potessero istigare all’emulazione, mutò i suicidi dei personaggi in incidenti mortali. Pur partendo da premesse differenti, in anni successivi, i testi della scrittrice sono stati modificati anche nel titolo. Particolare la vicenda di Ten Little Niggers, del 1939, uscito l’anno successivo negli Stati Uniti come And Then There Were None, per non urtare la sensibilità dei cittadini afroamericani, e poi proposto per un periodo in versione tascabile anche col titolo Ten Little Indians. In Italia fu pubblicato da Mondadori nel ’46 come …e poi non rimase nessuno e dal ’77 rititolato definitivamente Dieci piccoli indiani. In molti dei paesi in cui il romanzo è stato tradotto, il titolo ha subito vicende simili.

L’editoria anglosassone ha recentemente introdotto la figura professionale del sensitivity reader, un editor che vaglia i testi con l’incarico di identificare parole, stereotipi o rappresentazioni eventualmente offensive nei confronti di minoranze. Uno scrittore di oggi, che voglia diventare più consapevole in questo senso, potrebbe scegliere di avvalersene. È difficile però non interpretare l’espressione sensitivity readers come un eufemismo fantasioso e garbato per dire ‘censori’ (nihil sub sole novum) quando invece, a partire dalle loro indicazioni, vengono operati tagli e riscritture anche in romanzi di autori ormai defunti, i quali, come è ovvio, non possono più approvare o respingere quei rimaneggiamenti. È proprio questo il caso dei libri di Agatha Christie e Ian Fleming (autore dei romanzi il cui protagonista è James Bond) dai quali sono stati eliminati termini discriminatori, che risentono di una mentalità colonialista, sessista o omofoba, ma anche vaghi riferimenti all’etnia e descrizioni fisiche poco clementi. A seguito di proteste diffuse, in alcuni casi, i lettori hanno ottenuto che accanto a quelle nuove si pubblicassero ancora edizioni non modificate, sebbene talvolta precedute da ridicoli disclaimer, in cui si fa presente che il libro in questione non è stato scritto stamattina e contenuti e linguaggio sono soggetti, come tutte le cose del mondo, alla tirannia di Crono. Un’avvertenza che per qualsiasi persona ragionevole è talmente superflua, da essere quasi offensiva.

censura
Letteratura e censura. Foglie di f**o

I romanzi per l’infanzia, che Roald Dahl ha scritto durante una carriera di quasi cinquant’anni, hanno subito una sorte simile. A lui dobbiamo, tra tanti testi, I Gremlins, James e la pesca gigante, La fabbrica di cioccolato, Il GGG, Le streghe e Matilde. Nonostante l’irriverenza sia una cifra stilistica dell’autore, che sovente ricorreva a un linguaggio satirico e graffiante, non si tratta certo di libri moralmente ambigui o sovversivi. Dahl non è il Marchese de Sade. Egli stesso, negli anni, aveva già modificato i suoi romanzi in quegli aspetti che altri avevano trovato sconvenienti. Ad esempio gli Umpa Lumpa de La fabbrica di cioccolato nella prima stesura originale erano descritti come pigmei, ma, a seguito della pubblicazione del libro negli Stati Uniti, accuse di razzismo portarono Dahl a cambiare la fisionomia di questi personaggi. Dopo la sua morte, per gestire i proventi dai diritti d’autore di edizioni, traduzioni, adattamenti cinematografici e televisivi, gli eredi hanno costituito la Roald Dahl Story Company. Invece di farsi garante dell’integrità degli scritti, così come erano stati consegnati al mondo dopo gli interventi effettuati personalmente dall’autore, la società prese la decisione di revisionarne i testi già nel 2020, quando non era ancora stata acquisita da Netflix, che dal 2021 gestisce in piena libertà gli adattamenti delle opere di Dahl. Così la casa editrice britannica Puffin Books (un altro ramo della Penguin Books, a cui abbiamo già fatto riferimento parlando di Disrupt Texts) ha riscritto i libri dell’autore con la consulenza di Inclusive Minds, un collettivo di sensitivity readers specializzato in letteratura per l’infanzia. Alcuni ricorderanno la polemica sollevata al riguardo nel a febbraio del 2023. Non fu la Puffin a rendere noto il proprio operato, ma la segnalazione partì da giornalisti del Telegraph, che, facendo una lettura comparata delle diverse edizioni, avevano riscontrato centinaia di differenze significative.

L’entità delle modifiche va dall’eliminare riferimenti al genere o all’etnia, espressioni idiomatiche da non intendere in senso letterale quali it’s a suicide e this is driving me crazy, fino a omettere black e white, anche quando riferiti a oggetti inanimati (sia mai che se ne risentano). Altri aggettivi di uso corrente vengono soppressi o sostituiti con eufemismi ridicoli, come se descrivere figure di finzione equivalesse a offendere persone reali. Si arriva addirittura a stravolgere la psicologia dei personaggi, mettendo loro in bocca parole che non hanno un briciolo della verve e della forza espressiva dell’originale e che attribuiscono loro idee completamente nuove, prima assenti. Anche quando Dahl menziona degli scrittori, i loro nomi, a volte, vengono sostituiti, in modo da bilanciare le proporzioni di genere e provenienza o per altri motivi ancora: Conrad viene sostituito da Jane Austin, il britannico e un po’ troppo imperialista Kipling dallo statunitense Steinbeck. Il giorno successivo a quello in cui Camilla Parker Bowles si unì alle proteste dei lettori, la casa editrice si rese disponibile a pubblicare ancora le versioni originali accanto a quelle modificate. Un Windsor è sempre un Windsor, anche quando è d’acquisto.

Roald Dahl quindi continuerà a firmare e comparire come autore anche di testi riscritti da altre mani, secondo una sensibilità che non era né la sua, né quella del suo tempo. Almeno premettessero un onesto e umile «liberamente tratto da» con l’indicazione «adattamento a cura di», come per quei libri che si presentano apertamente quali riduzioni per bambini di opere letterarie o come per le trasposizioni cinematografiche. Nel Pinocchio della Disney non è presente la scena in cui nel testo di Collodi il burattino viene impiccato, ma è chiaro, non fosse altro che per il cambio di media, che quella non è l’opera dell’autore.

Se si considera che negli originali vi siano criticità insormontabili per un bambino, oppure non si ha tempo né voglia di spiegargliele, si smetta di considerare i testi di Dahl letteratura per l’infanzia e si propongano i suoi romanzi in un secondo momento, quando il lettore abbia più strumenti. Nel frattempo, si diano ai bambini quei libri ritenuti congrui così come sono o se ne scrivano di nuovi, senza pretendere che il passato sia in grado di intercettare la sensibilità del nostro presente e prevedere quella del futuro.

Anche lo scrittore Salman Rushdie, che di censura ne sa qualcosina, ha espresso la sua opinione su Twitter, dicendo che i gestori dei diritti di Dahl e Puffin Books dovrebbero vergognarsi di questa operazione. Io non sono Rushdie, ma sono cresciuto in una famiglia in cui mi è stato insegnato che ‘non si tocca la roba degli altri’. È pur vero vero che quella decisione era stata presa dagli eredi dello scrittore ma, tra una proprietà intellettuale e l’appartamento di un vecchio zio defunto, che può essere venduto, affittato, ristrutturato, ridipingendo o abbattendone le pareti, c’è una differenza che si coglie immediata ed è il concetto di autorialità.

Ma cosa sarà mai la letteratura? Consisterà mica anche nel pregio e nella bellezza della lingua usata? In un testo letterario lessico e trama, forma e contenuto non sono separabili. Dire più o meno la stessa cosa con parole diverse, non sarà mai dire la stessa cosa. Per secoli i filologi hanno cercato il filo, che, attraverso un infinito labirinto di copie alterate, li riportasse alla forma autentica delle opere. E noi che, riguardo ai testi contemporanei, abbiamo la fortuna di trovarci là dove il filo origina, per una sciocca presunzione a volte siamo tentati di non trattenerne il capo.