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Dal golpe dello scorso agosto allo scioglimento della giunta militare, rimane incerto il destino del Mali

Vengono definite le guerre invisibili, dato il ridottissimo spazio a loro dedicato dai media, poiché giudicata scarsa la loro potenzialità di fare notizia, e data la conseguente indifferenza da parte della maggior parte delle persone, per lo più inconsapevole della loro esistenza. Ma, spesso, sono anche, ironia della sorte, guerre eterne, per le quali non sembra possibile trovare una soluzione pacifica e che aleggiano come spettri immortali su coloro che sono costretti a subire giorno dopo giorno le loro conseguenze. A volte, tuttavia, un singolo fatto, un singolo episodio giunge improvviso ad attirare l’attenzione dei media ed ecco che si accende allora un riflettore su queste guerre, come un lampo che illumina una notte pesta. Ma con la stessa velocità del lampo, anche l’interesse improvvisamente suscitato si spegne in breve tempo.

Questo è ciò che è avvenuto negli ultimi anni nella Regione africana del Sahel, luogo che, come ben ha affermato il noto esperto di geopolitica Lucio Caracciolo in una conferenza del 2012, spesso la gente associa con il deserto ma la quale non è sicuramente desertica di persone. (Lucio Caracciolo, 14/11/2012)

In questo territorio, infatti, si sta combattendo ormai da anni una violenta guerra contro gruppi jihadisti che imperversano in tutta la Regione, guerra che sta coinvolgendo non solo le popolazioni locali, ma anche gli eserciti di nazioni straniere, in particolare la Francia, la quale più di tutti si sta impegnando in una campagna di liberazione, memore anche del passato controllo coloniale esercitato su questi territori. Impegno che, però, è passato pressoché indisturbato agli occhi dei più, salvo venire alla luce solo in poche occasioni veramente eclatanti, le quali hanno tuttavia esaurito in fretta la loro fiammata.

La più recente di queste è stato il colpo di stato avvenuto in Mali nell’estate appena trascorsa, più precisamente il 18 agosto del 2020, quando l’allora presidente in carica Ibrahim Bubacar Keità è stato arrestato dai soldati del suo stesso esercito e costretto, quindi, a dimettersi.

L’evento aveva subito fatto scatenare la dura critica da parte della comunità internazionale, a partire dall’Onu che aveva richiesto l’immediato rilascio del presidente e del suo staff, e dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che aveva indetto una riunione straordinaria, spinto dalla Francia, come detto la più interessata alla situazione di questa parte di Africa. La reazione non era tardata ad arrivare neppure da parte dell’Unione Africana, la quale aveva sospeso il Mali, e da parte dell’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, la quale aveva promosso un embargo contro il Paese. La stessa notizia dell’accadimento aveva attirato l’attenzione dei media, i quali avevano deciso di dedicare, nei successivi giorni, spazio alla disamina della situazione in questo territorio, salvo poi dimenticarsi nuovamente dell’esistenza del Mali a poco tempo dal colpo di stato. Come si è già detto, queste notizie sono brevi lampi che passano in fretta.

Il riflettore sul Mali si è, tuttavia, riacceso nei giorni scorsi, quando Bah N’Dow, presidente del governo ad interim nominato il 5 ottobre del 2020, ha dichiarato, con decreto del 18 gennaio 2021, lo scioglimento della giunta militare che aveva preso le redini del potere a seguito del golpe. (Redazione Sicurezza Internazionale LUISS del 27gennaio 2021)

La notizia è stata resa nota solo il 26 gennaio, tuttavia non ha suscitato lo stesso interesse che era stato acceso dal colpo di stato, forse perchè il futuro politico del Mali è ancora assai nebuloso, o più probabilmente perchè giudicato un avvenimento di poco conto in un Paese dove i cambi di governo e i golpe si stanno succedendo con grande rapidità negli ultimi anni. Già nel 2012 vi era stato, infatti, un colpo di stato di militare che aveva portato alla deposizione dell’allora presidente Tourè e dal quale era poi nato il nuovo esecutivo guidato da Keità. Questa visione è, però, riduttiva e gli avvenimenti geopolitici che si sono succeduti nello stato maliano meriterebbero una più attenta disamina, data anche la ripercussione che potrebbero avere al di fuori dei suoi confini.

Andiamo ad analizzare quindi i vari passaggi che hanno portato al più recente scioglimento della giunta militare.

Sebbene alla base di entrambi i golpe vi sia la difficoltà nel respingere la minaccia jihadista, dapprima incarnata in gruppi ribelli tuareg e successivamente in gruppi terroristici, la quale sta cercando di strappare sempre più territori all’esercito maliano, il colpo di stato del 2012 aveva visto di fatto i soli militari come protagonisti, rivoltatosi a causa dello scarse risorse destinate loro dal governo per la lotta contro i gruppi berberi che si erano impadroniti del nord del Paese. Il dominio militare si era spento rapidamente e nel 2013 si erano indette nuove elezioni regolari, le quali avevano portato alla nomina come presidente di Ibrahim Keità, politico molto amato dal popolo, soprattutto dai giovani, e le cui idee avevano fatto ben sperare in un ritorno ad una situazione di stabilità in quella che un tempo era visto come un grande esempio di Repubblica per l’intera Africa.  A dispetto della rielezione nel 2018, tuttavia, il nuovo presidente maliano disattende le aspettative e la sua popolarità si affievolisce nel corso degli anni. La lotta contro i gruppi jihadisti ha prodotto scarsi risultati malgrado l’appoggio di diverse missioni capeggiate da Francia, Unione Europea e Nazioni Unite, anzi i terroristi sembrano rafforzarsi di giorno in giorno e il leader dell’opposizione, Soumalia Cissè, è addirittura stato rapito durante le elezioni di marzo 2020 da un gruppo armato probabilmente legato ai terroristi, seppur non identificato. A ciò si è aggiunto un accentuarsi della crisi economica causato da una gestione dell’emergenza da Corona-virus non così brillante e che ha portato il Paese sull’orlo della regressione. Emergenza sanitaria che ha impedito a gran parte della popolazione di recarsi alle urne, con una partecipazione del solo 7% degli elettori (Marco Guerra, Vatican News del 30 marzo 2020), e che ha di fatto portato all’accusa di brogli elettorali nei confronti dello stesso Keità. Accusa che è stata ulteriormente accentuata dal riconteggio dei voti effettuato dalla Corte costituzionale del Mali e che ha permesso al partito del presidente in carica di ottenere il numero di seggi necessario per poter governare il Paese.

Dunque nuovamente un colpo di stato perpetrato dai militari con la giustificazione dell’incapacità del governo, ma con una differenza sostanziale rispetto al 2012: questa volta, infatti, il golpe trova l’appoggio anche da parte della maggior parte della popolazione, soprattutto delle fasce più giovani. Popolazione peraltro spinta verso un giudizio negativo nei confronti del governo in carica anche dalle parole dell’imam Dicko, enigmatica figura che è riuscita negli ultimi anni ad ottenere un largo consenso popolare, arrivando addirittura a fondare un proprio social network, dal alcuni visto come una sorta di partito politico.

Altra differenza rispetto al precedente golpe è rappresentata dal fatto che gli stessi militari hanno creato un Consiglio Nazionale per la Salvezza del Popolo, con a capo il colonnello Assim Goita, per guidare il Paese alla lotta al terrorismo e favorire la transizione politica per giungere a nuove elezioni democratiche, impegnandosi sin da subito a lasciare il potere non appena fosse stato eletto un nuovo governo in grado di normalizzare la situazione politica ed economica del Mali. Come si è visto l’azione militare è stata duramente contestata e la giunta militare è stata, infine, sciolta pochi giorni fa, apparentemente rispettando le promesse fatte dai capi dell’esercito. In realtà il governo civile ad interim nominato nell’ottobre scorso per accontentare le richieste dell’Ecowad ed evitare, probabilmente, il perpetrarsi della posizione di isolamento alla quale il Mali era stato condannato e che rischiava di peggiorare ulteriormente le sue condizioni, vedeva rivestire la posizione di vice presidente dallo stesso colonnello Goita, e anche ad oggi molte posizioni di rilievo all’interno del governo restano in mano ai militari. Malgrado ciò lo scioglimento della giunta ha portato ad un rilassamento dei rapporti tra il Paese e la comunità internazionale, in primis con la Francia. Macron ha infatti accettato di incontrare per la prima volta dal colpo di stato di agosto il presidente ad interim Bah N’Daw. L’interesse del presidente a francese a far si che la situazione nel Mali si stabilizzi è giustificata dal malcontento che il forte impegno militare che la sua Nazione ha messo a disposizione dello Stato africano sta generando in patria, dati gli scarsi risultati e le tante vittime, e che sarà, probabilmente, una delle carte sulle quali punterà l’opposizione alle prossime elezioni del 2022. Non va tuttavia dimenticato che anche l’Europa si è impegnata con una missione in questo territorio e, come lei, anche altre Nazioni e per tutte la durata di questa battaglia contro lo jihadismo che imperversa nel Sahel si sta facendo troppo lunga e sfibrante. Quindi ecco una ragione per porre maggior importanza e attenzione alla stabilità e al futuro politico del Mali. Futuro che resta un mistero e apre le porte a svariati scenari. Impossibile dire se si arriverà a delle vere elezioni democratiche nel breve periodo e se queste porteranno finalmente al potere un leader in grado di guidare il Paese verso una maggiore serenità. Alcune voci parlano della possibilità di candidarsi dello stesso imham Dicko, il quale si è sempre dichiarato guida religiosa e assolutamente estraneo alla politica, ma che, come visto, è assai carismatico all’interno del Paese e ha saputo mobilitare una larga frangia della popolazione con le sue parole. Se non è sicura la sua candidatura alle prossime elezioni, è certa la sua visione politica, la quale prevede, fra l’altro, un dialogo con i gruppi terroristici. Resta, però, il dubbio che questa apertura non verta in una legittimazione degli stessi, favorendo il controllo dell’intero Paese da parte dei jihadisti, data anche la passata appartenenza dello stesso Dicko a sette estremiste. Al di la di questo scenario assai pessimistico, i gruppi terroristici potrebbero rafforzare ulteriormente la loro presenza nel territorio maliano anche se non si andasse alle urne e proseguisse l’attuale situazione di instabilità e insicurezza. Instabilità che potrebbe, infine favorire anche le mire di altri attori interessati a conquistare la zona del Sahel, quali Russia e Turchia, subito attirate dalla crisi generatasi a seguito del colpo di stato e pronte a scalzare la Francia nel ruolo di maggiori influenti nel territorio.

La nebbia continua ad aleggiare sul futuro del Mali, per il momento imprevedibile, ma la cosa certa è che la comunità internazionale non deve rimanere sorda a quanto sta avvenendo in questo Stato e lasciare che il terrorismo prenda il sopravvento, poiché la crisi non si fermerebbe sicuramente in questa Regioni ma dilagherebbe come un cancro nei territori limitrofi e sarebbe, a quel punto, troppo tardi per agire. 

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