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Un’elezione one of a kind

Lo scorso novembre 2023, Dorothy Jean Tillman II, ancora diciassettenne in quel momento, è diventata la persona più giovane nella storia degli Stati Uniti ad aver conseguito un dottorato di ricerca. Introdotta da piccola (anzi, piccolissima) in un programma dedicato a studenti prodigio, e proseguiti poi gli studi liceali in casa, Tillman ha iniziato il percorso universitario presso l’università dell’Arizona a 9 anni, con intense lezioni da remoto, spesso seguite da uno Starbucks di Chicago.

Un mese fa, l’8 maggio, si è tenuta la cerimonia della consegna dei diplomi a Phoenix, presso il College of Health Solutions della Arizona State University, dove Tillman è stata invitata a pronunciare un discorso in quanto esempio di un percorso accademico straordinario e ispirazionale per chiunque. Tillman ha ringraziato la madre, con cui vive in Illinois, e che ha alimentato la fiamma di questo inusuale e incredibile percorso accademico – fatto di laurea, doppio master e dottorato – , one of a kind, unico nel suo genere. Ha poi menzionato la nonna, da cui Dorothy ha preso il nome, una figura d’eccellenza nella storia della lotta ai diritti civili, poiché collaboratrice di Martin Luther King Jr. negli anni sessanta.

Nel 1960, un’altra giovanissima studentessa fece qualcosa per la prima volta nella storia degli Stati Uniti. Si chiama Ruby Bridges, all’epoca aveva sei anni, e il 14 novembre di quell’anno saliva i pochi gradini della scuola elementare William Frantz di New Orleans, in Louisiana. è accompagnata, o forse sarebbe meglio dire scortata, da quattro sceriffi federali. Trascorse quel suo primo giorno di scuola nell’ufficio del preside, osservando il viavai dei genitori di tutti gli altri alunni della scuola, che si affrettavano infuriati a recuperare i figli. Bridges fu la prima bambina afroamericana iscritta a una scuola che fino a pochi anni prima era riservata a studenti bianchi. L’unica, tra altri sei a cui era stata confermata la selezione per quella scuola, a essersi effettivamente iscritta, ed aver tentato di frequentarla. Dico «tentato» non a caso: il secondo giorno di scuola iniziarono le lezioni, tenute da una giovane professoressa di Boston solo per lei, in un’aula vuota. Il terzo, il quarto, il quinto, e tutti i giorni fino alla fine dell’anno, gli agenti federali scortarono Bridges e la madre all’entrata e all’uscita della scuola. Le esortavano a guardare avanti e non fermarsi, così da non dover incrociare gli occhi incattiviti della folla e i loro cartelloni imbrattati di offense, anche se in ogni caso non avrebbero potuto evitare di sentire le urla e gli insulti razzisti.

Nonostante ciò, ufficialmente già dal 1954 le scuole non erano più segregate. Si tratta del risultato della sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Brown v. Board of Education of Topeka in cui era venne stabilita l’anticostituzionalità delle leggi statali che imponevano la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. La dottrina che riassumeva la situazione scolastica negli anni precedenti a questa cruciale decisione della Corte Suprema legiferava su tutte le sfere della vita sociale degli afroamericani: «separati ma uguali». Questo, dal punto di vista pratico, significa che in realtà esisteva una profonda differenza. Le sovvenzioni scolastiche delle scuole per afroamericani consentivano di dotare gli studenti di edifici scolastici sovraffollati, spesso inaccessibili con i mezzi pubblici, aule con scarse risorse, senza banchi sufficienti per ogni bambino, libri di seconda mano recuperati dalle scuole bianche, e insegnanti neri pagati il 50% in meno dei loro colleghi bianchi.  

Tuttavia, anche dopo Brown v. Board of Education, la decisione che prometteva di annullare queste disparità, gli americani, soprattutto i suprematisti bianchi degli Stati del Sud, come la Louisiana, non hanno accettato la fine della segregazione. Il risultato? Nella teoria, Alabama, Arkansas, Georgia, Louisiana, Mississippi, Carolina del Sud e Virginia hanno redatto il Southern Manifesto, con cui si impegnavano a mantenere la segregazione, anche nelle scuole. Nella pratica gli studenti afroamericani di ogni grado continuavano ad essere scortate dalle forze dell’ordine, come nella scuola superiore di Little North, in Arkansas, diventata famosa per un gruppo di adolescenti afroamericani scortati dalla 101st Airborne Division, un’unità di fanteria leggera dell’esercito federale.

Il 19 maggio 2024 il presidente Joe Biden ha celebrato il 70° anniversario della sentenza Brown v. Board of Education. Lo ha fatto recandosial Morehouse College di Atlanta, in Georgia. È un un’università storicamente legata alla comunità afroamericana e frequentata, al tempo, da altro studente prodigio, Martin Luther King Jr. Circondato da una realtà studentesca dove quella promessa di integrazione e standard di eccellenza sembrano ormai essersi veramente realizzati, non si può dire che il presidente sia stato accolto con calore. Leggere la trascrizione pubblicata dalla Casa Bianca non è sufficiente per respirare l’atmosfera fiacca della platea, che applaudiva forse per dovere, più che per vero rispetto. Alcuni studenti non si sono sforzati, e anzi, hanno girato le spalle al palco in segno di protesta.

Le persone a cui stava parlando quella mattina Biden sono le stesse con cui si trova in grossa difficoltà in questa campagna elettorale: i giovani afroamericani. Da tempo una componente chiave della base democratica, nel 2020 una fascia importante per sua elezione, gli afroamericani sono il segmento di popolazione di cui sta cercando più faticosamente il consenso. I giovani, soprattutto quelli legati ai contesti universitari, da un mese e mezzo protestano nei campus universitari di tutta America contro il suo operato nella questione Israelo-palestinese: la risposta troppo debole al primo ministro israeliano Netanyahu e una richiesta altrettanto flebile di un cessate il fuoco permanente. Esiste poi un problema che riguarda tutti i giovani – di qualsiasi etnia, nazionalità – cioè che vanno molto meno a votare.

All’inizio della sua presidenza, Biden godeva dell’approvazione dell’86%  tra gli afroamericani. Da quel momento il numero è però sceso, costantemente, arrivando sotto al 60% all’inizio del 2023 e risalendo fino al 77% oggi. Non è una situazione catastrofica, se la si inquadra solo dal punto di vista dei numeri: gli afroamericani continuano a preferire il candidato del partito Democratico a Trump. Tuttavia è impossibile non notare che la situazione è effettivamente diversa, rispetto al passato in cui la presidenza Obama era percepita con orgoglio dalla comunità afroamericana, e Biden era guardato con rispetto nella sua posizione di vicepresidente del primo presidente nero del paese. La relazione fra la comunità afroamericana e il partito Democratico guarda ancora più indietro, agli anni Sessanta e l’era dei diritti civili: i figli di quella generazione, cioè le persone che oggi hanno più di 50 anni, sono ancora sicuri di dare il proprio voto a Biden (l’84%). Ma per i nuovi elettori  sembra che  qualcosa stia cambiando:  sono meno favorevoli a Biden (il 68%) e più favorevoli a Trump degli adulti (29% contro il 9%).

Cosa sta facendo la campagna Biden per recuperare la fiducia di questa parte della popolazione americana? Concentra al massimo le sue energie, il suo tempo, i suoi investimenti economici in pubblicità mirate, in raduni nei posti chiave negli Swing States come Detroit, Atlanta, Philadelphia, in partecipazioni a incontri che celebrano anniversari cari alla comunità afroamericana, come i settant’anni di Brown v. Board of Education. Il suo discorso al Mourehouse College era uno di questi.

Manca qualcosa? Il mese prossimo, il 27 giugno, Biden dovrà sfoderare ogni goccia della sua prontezza retorica nel primo di due dibattiti televisivi contro Trump, al quale non può permettersi di regalare consensi. Trump che, sappiamo ormai da giorni, è il primo ex presidente degli Stati Uniti accusato formalmente di essere colpevole un reato. E consensi che Biden deve tenere stretti anche in vista di due processi – uno dei quali iniziato lo scorso lunedì 3 giugno – che indagheranno il figlio Hunter, accusato di possesso illegale di arma da fuoco e frode fiscale. Non esattamente la pubblicità di cui un candidato alla Casa Bianca ha bisogno.

Questo è il tabellone di gioco delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Un’elezione one of a kind.

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