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Orizzonti

Tutto comincia con Einstein. Anzi no, tutto comincia cento e più anni prima, in una notte stellata del 1783. L’astronomo inglese John Mitchell sta scrutando il cielo con il suo telescopio quando ha un’intuizione prodigiosa: e se un corpo celeste, pianeta o stella, si domanda, avesse una massa talmente grande da impedire persino alla luce di superare la velocità di fuga, la velocità necessaria per sfuggire alla morsa della gravità? Mitchell trascorre il resto della notte arrovellandosi sulle sue idee, che condensa in una lettera indirizzata al collega Henry Cavendish. Battezza questi oggetti ciclopici e invisibili «stelle oscure». L’anno successivo, la lettera viene inserita nei rendiconti della Royal Society, mentre quindici anni più tardi Pierre­-Simon de Laplace la cita all’interno del suo Trattato di meccanica celeste. A questo punto i mostri risvegliati da Mitchell tornano in letargo: bisognerà attendere oltre un secolo perché qualcuno li desti nuovamente, e una volta per tutte, dal loro sonno profondo.

Nel dicembre del 1915, dopo dieci anni di studio ininterrotto, Albert Einstein pubblica le equazioni della Relatività generale, la sua teoria più importante. Queste equazioni descrivono la gravità come una curvatura dello spaziotempo esercitata da una massa, superando la legge di Newton secondo cui l’attrazione gravitazionale è invece una forza a distanza. In estrema sintesi, la Relatività generale ci dice questo: corpi pesanti come la Terra o il Sole sono in grado di deformare la geometria dello spazio – e del tempo – attorno a sé, creando avvallamenti e increspature, proprio come una biglia lasciata cadere su un lenzuolo teso. Qualsiasi oggetto che si trovi in prossimità di un corpo abbastanza pesante da curvare lo spazio viene perciò costretto a seguire i solchi tracciati da quest’ultimo; la mela che si stacca dall’albero e cade a terra, la pioggia che scende dall’alto verso il basso, i pianeti che orbitano intorno alle stelle: la gravità non è altro che una conseguenza di questa curvatura. Evidentemente lo spazio è tanto più deformato quanto più la massa è elevata. La gravità su Giove è due volte più forte di quella che sperimentiamo qui, sulla Terra, ma quattordici volte più debole della gravità sulla superficie esterna del sole, ed esistono stelle con campi gravitazionali decine di volte più intensi di quello solare.

Torniamo a Einstein. Poche settimane dopo aver pubblicato le equazioni, mentre prende il tè nel suo appartamento a Berlino, riceve una lettera dal collega Karl Schwarzschild, che a quel tempo comanda uno squadrone di truppe tedesche sul fronte orientale russo. La busta ha attraversato paesi in guerra tra loro, è sporca, malmessa, il nome del mittente coperto da una macchia di sangue. Il messaggio si chiude con queste bellissime parole: «Come potete vedere, nonostante l’incessante fuoco delle armi, la guerra è stata sufficientemente buona con me da permettermi di allontanarmi da tutto e fare questa breve incursione nella terra delle vostre idee». Voltando il foglio, Einstein nota che effettivamente sul retro c’è scarabocchiato qualcosa: numeri, formule, ancora numeri, una strana figura geometrica che ricorda una sella di cavallo. La calligrafia di Schwarzschild è a tal punto minuscola e sbiadita che per decifrarla serve una lente d’ingrandimento. Einstein legge il testo più e più volte, se lo rigira tra le mani nel tentativo di interpretare quei segni, è completamente assorto nei calcoli, e quando finalmente capisce viene colto da un moto d’affanno. Persino il fisico più celebre della storia stenta a crederci: Schwarzschild ha trovato la prima soluzione esatta alle equazioni della teoria della relatività.

A lasciare Einstein sbalordito non è tanto il fatto di avere tra le mani la soluzione alle sue equazioni, né la rapidità con cui, a neanche un mese dalla pubblicazione della Relatività generale su Annalen der Physik, qualcuno sia stato in grado di risolvere calcoli dall’altissimo coefficiente di complessità, ma che Karl Schwarzschild sia riuscito in quest’impresa titanica immerso com’era nel fango delle trincee, sorvolato da nubi di gas tossico e colpi di mortaio nemici. In una lettera Einstein si congratulerà per la risoluzione delle equazioni, promettendogli che molto presto avrebbe presentato il suo lavoro all’Accademia delle scienze, ma con Schwarzschild il destino sarà molto meno clemente della guerra. Nel marzo dell’anno successivo, ancora alle prese con lo studio delle traiettorie balistiche sul campo di battaglia, contrarrà una terribile malattia che lo costringerà a rientrare in Germania. Morirà due mesi dopo, a Postdam, con l’esofago lacerato e la faccia ricoperta di vesciche.

Ma comunque. La soluzione presentata da Schwarzschild viene insegnata ancora oggi nelle facoltà di fisica. Oltre a spiegarci come si muovono le cose per effetto della curvatura dello spaziotempo attorno a un oggetto molto pesante, prevede anche qualcosa di molto insolito. Ricordate quando prima dicevamo che la curvatura, la gravità, è tanto più accentuata quanto più è grande la massa? Sono stato impreciso: in realtà la curvatura è tanto più accentuata quanto più la massa è concentrata, densa. Schwarzschild si spinge fino all’estremo di questo ragionamento. I suoi calcoli mostrano come attorno a masse tremendamente concentrate si formi una specie di guscio, una superficie sferica dove la gravità fa da padrona e tutto diventa assurdo: gli orologi si fermano, il tempo non scorre più, mentre lo spazio si stira come un lunghissimo e sottilissimo imbuto fino a lacerarsi.

Tempo congelato, spazio che si strappa… Tutto questo non ha minimamente senso. Einstein arriva alla conclusione più ragionevole: dev’esserci un errore. E siccome la soluzione di Schwarzschild sembra proprio corretta, l’errore deve trovarsi a monte. Sono le sue equazioni a essere sbagliate? In effetti, svolgendo qualche conto si scopre un’altra cosa: affinché gli si formi intorno questo guscio, un corpo andrebbe compresso in modo esagerato. Qualche esempio: mantenendo costante la massa, il sole dovrebbe avere un diametro di appena tre chilometri, la Terra le dimensioni di una noce, la luna quelle di un granello di sabbia. Settantatré miliardi di miliardi di tonnellate contenute nel volume di un granello di sabbia. Einstein ha i suoi buoni motivi per dubitare.

E invece si sbaglia. Nel senso che non si era sbagliato: i calcoli di Schwarzschild sono corretti, ma lo sono anche le sue equazioni. Oggetti di questo tipo esistono, ce ne sono miliardi di miliardi nel cosmo. Le loro masse sono così concentrate, la curvatura dello spaziotempo così marcata, che nulla, nemmeno la luce, è in grado di vincere la gravità. Sono le stelle oscure teorizzate da Mitchell. I buchi neri.

Per decenni i buchi neri sono stati al centro di un acceso dibattito circa la loro effettiva esistenza. L’avvento della meccanica quantistica aveva già assestato un duro colpo alla fisica classica: ammettere, adesso, anche l’esistenza di regioni dell’universo con le loro leggi sconclusionate, che trascendono il buon senso, per di più impossibili da vedere, finisce per spaccare in due la comunità scientifica del secolo scorso. Ma non tutto ciò che esiste è visibile all’occhio umano. Col passare del tempo gli astronomi hanno potuto osservare i buchi neri indirettamente, studiando il moto delle stelle che vi si avvicinano, ad esempio, oppure analizzando le radiazioni emesse dai gas orbitanti un attimo prima di essere inghiottiti. Oggi ne abbiamo individuati parecchi, alcuni molto piccoli, delle dimensioni di una montagna, altri addirittura più estesi del sistema solare. Due siamo riusciti perfino a fotografarli.

La maggior parte dei buchi neri osservati finora è nata da astri morenti. Nell’universo esistono infatti stelle così massicce, fino a cento volte più pesanti del nostro sole, che rischierebbero di rimanere schiacciate sotto il loro stesso peso. È il calore prodotto dalla fusione dell’idrogeno che, generando una pressione capace di controbilanciare la forza di gravità, garantisce la stabilità della stella impedendole di sprofondare su se stessa. Insomma, fintanto che c’è combustione la situazione è tranquilla, e in genere ci vogliono miliardi di anni prima che una stella esaurisca tutto il carburante. Ma niente dura in eterno. Quando anche l’ultimo grammo di combustibile è stato bruciato, la temperatura scende e la gravità prende il sopravvento. La stella è spacciata, comincia a collassare, rimpicciolisce sempre di più, finché non diventa talmente densa da bucare la trama stessa del cosmo. Di colpo il tempo si ferma. Lo spazio si stira e si lacera. Ci siamo. Un guscio oscuro avvolge tutto: si è formato un buco nero.

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Editoriale N°3 – Orizzonti

Nella meravigliosa illustrazione di Susanna Galfrè, vediamo uno sventurato astronauta in procinto di essere divorato da un buco nero. Quella nube che lo circonda si chiama disco di accrescimento, un vortice di gas infuocati che ruota a velocità impressionante. Il cerchio di colore più scuro è invece il buco nero vero e proprio; o meglio, il suo orizzonte. La porta che si affaccia sull’ignoto. Avviciniamoci.

È qui, lungo questa soglia, che accadono le cose più sbalorditive – o forse no, forse dentro succede qualcosa di ancor più interessante: ma poiché il nostro sguardo non può spingersi oltre, e poiché se qualcuno varcasse l’orizzonte non avrebbe modo di tornare indietro per raccontarci che cosa ha visto, non lo sapremo mai. La più sconcertante rivoluzione posta dalla relatività di Einstein riguarda il tempo. Abituati al regolare ticchettio delle lancette, la nostra esperienza ci porta a credere che il tempo sia scandito ovunque allo stesso modo. Un’ora a bordo di un aereo coincide con un’ora passata a leggere sdraiati su un prato, o sulla superficie rocciosa di Marte, o a un’ora di viaggio verso la galassia di Andromeda. In realtà non è così. Velocità e gravità giocano un ruolo chiave nella misura del tempo. Gli orologi rallentano se cominciamo a muoverci, e il tempo passa più velocemente in montagna che al mare. Se, per esempio, mentre il vostro gemello parte per una scalata sul Monte Rosa, voi decidete di trascorrere quegli stessi giorni in barca al largo della costa, quando al termine della vacanza vi rincontrate lui sarà invecchiato più di voi. La differenza d’età è però così minima da risultare impercettibile. Diverso è se al posto della gita in barca scegliete di avventurarvi lungo l’orizzonte di un buco nero: qui la gravità è molto più intensa, e al vostro ritorno, confrontando l’orologio con quello di vostro fratello, noterete un fatto incredibile: il tempo trascorso per voi dall’ultima volta che lo avete visto sarà più breve del tempo trascorso per lui. Può sembrare assurdo, impensabile, eppure le cose stanno esattamente così.

Qualcosa tuttavia non torna. Sia che stiamo indugiando sull’orizzonte di un buco nero, dove il tempo è dilatato a dismisura, sia che ci troviamo al mare o in montagna, sentiamo che non accade nulla di particolare. Le lancette si muovono sempre allo stesso ritmo, non vediamo lo spazio intorno a noi stirarsi e lacerarsi. Come conciliare tutto questo con gli eventi pazzeschi descritti prima?

Con un radicale cambio di prospettiva. La soluzione di Schwarzschild è corretta, descrive esattamente quello che accade a ridosso dell’orizzonte, ma è scritta dal punto di vista di un osservatore lontano dal buco nero. Torniamo all’astronauta illustrato da Susanna. Da lontano vediamo le lancette del suo orologio rallentare fino a fermarsi quando arriva sull’orizzonte. La luce impiega del tempo per compiere il tragitto che va dall’astronauta a noi, e più lui si avvicina al buco nero, più la gravità ‘trattiene’ la luce, frenandola. È per questa ragione che noi che siamo lontani vediamo l’astronauta muoversi a rallentatore; ed è per la dilatazione temporale causata dalla gravità che, se torna indietro, per lui sarà passato meno tempo di quanto non ne sia passato per noi, che siamo rimasti lontani. Ma nel suo viaggio intorno al buco nero l’astronauta non ha sperimentato alcun rallentamento. Per lui che era lì, il tempo è passato normalmente. Il segreto per comprendere le meraviglie della Relatività generale sta proprio in questo passaggio: il tempo scorre in modo diverso in luoghi diversi. Non esiste un tempo universale, giusto, valido per tutti. Esistono invece infiniti tempi locali. Da vicino, l’orizzonte di un buco nero non ha niente di sensazionale. Da lontano, è il luogo dove lo spazio si strappa e il tempo si congela.

Ci fermiamo qui, sull’orizzonte del buco nero. Oltre, il nostro sguardo non può andare. Da decenni i fisici mettono in campo nuove teorie per provare a capire che cosa succeda al di là. Non è detto che ci riusciranno. Tra le ipotesi più suggestive, e non meno accreditata di altre, c’è quella del professor Carlo Rovelli, secondo il quale laggiù, superato l’orizzonte, scendendo fino in fondo al buco nero, dove spazio e tempo si sciolgono, si sbucherebbe nel futuro. Buchi bianchi è il suo ultimo libro: racconta il suo lavoro di fisico, da anni dedicato alla ricerca degli elusivi e impalpabili fratelli minori dei buchi neri, e forse saprà rispondere alle domande che vi sono sorte leggendo questo pezzo.


Illustrazione di Susanna Galfrè