Il cinema ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel ritratto delle periferie italiane in trasformazione. Ancora oggi vengono confezionate e infiocchettate a dovere (forse fin troppo in alcuni casi).
Non è un mistero che fin dai primi passi del cinema italiano la periferia abbia rappresentato un genere a sé stante, potendo vantare un parterre di registi e autori d’eccezione. Ma come si è evoluto il racconto negli ultimi vent’anni? L’eredità in bacheca di mostri sacri come Fellini, Antonioni e Pasolini – solo per citarne alcuni – è di quelle pesanti da raccogliere, ancor più da rimaneggiare, e senza troppi indugi, gli esempi fortunatamente non mancano. Dalle prime pellicole degli anni duemila come Romanzo Criminale (Michele Placido), passando per Gomorra (Matteo Garrone) e Suburra (Stefano Sollima), la periferia viene ritratta come luogo di degrado, violenza e criminalità, e non poteva essere altrimenti. Questi film hanno mostrato il lato oscuro delle banlieue, spesso dimenticate da società e istituzioni. I registi hanno scelto di raccontare storie di personaggi che lottano per sopravvivere in un ambiente ostile e privo di speranza, dove la legge del più forte prevale su tutto. E considerando la realtà dei fatti, è giusto che sia così. Ciò che ci racconta il cinema di oggi, tuttavia, è che c’è anche un altro genere di periferia, non per forza in salsa sparatutto, ma ci arriveremo.
Tornando alla «viulenza» tanto cara ad Abatantuono, l’epicentro emozionale di simili produzioni sta nella loro capacità di portare lo spettatore a riflettere sulla condizione sociale ed economica di queste zone, ed elargire una conoscenza più profonda di realtà dove la strada e la sopravvivenza rappresentano le uniche linee guida educative. Il cinema italiano ha quindi il merito di aver portato alla luce una verità nascosta, che spesso viene negata o minimizzata. Il contributo cinematografico è sicuramente fra le ragioni principali di una periferia italiana sempre più oggetto di discussione pubblica e fonte di visibilità.
Suburra e il ritratto delle banlieue romane
Tra gli esempi recenti, Suburra si fa notare per come ha dipinto in modo efficace il ritratto brutto, sporco e cattivo della Capitale, immergendo lo spettatore in un’atmosfera difficile da ritrovare in produzioni simili. La pellicola del 2015 diretta da Stefano Sollima – tratta dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo – ha restituito una visione cruda e corrotta (e quindi realistica) della città eterna, mostrando la periferia come luogo di degrado e alienazione, ben lontano dalla grande bellezza del centro storico.
La storia si sviluppa nel quartiere di Ostia, dove il potere politico si fonde con quello criminale, dando vita a un intreccio di intrighi e violenza in salsa mediterranea. In questo scenario, i protagonisti cercano di ottenere il controllo della zona, utilizzando ogni mezzo a loro disposizione. La macchina da presa segue le vicende con un’attenzione maniacale per i dettagli, mostrando la città nella sua vera essenza, lontana dal glamour turistico. Suburra è stato uno dei film italiani più incisivi nel mostrare la realtà delle periferie italiane, seguendo quella via tracciata da Romanzo Criminale e Gomorra nei primi anni duemila.
Nuovo realismo e cinema sociale italiano: Giovannesi, Carpignano, Garrone
Il cinema sociale italiano è stato caratterizzato negli ultimi anni da quella corrente cinematografica che i più definiscono «nuovo realismo». Due dei registi che meglio rappresentano questa tendenza sono Claudio Giovannesi e Jonas Carpignano. Il primo ha portato sul grande schermo storie di giovani adolescenti alla ricerca della propria identità, come nel film Fiore, che racconta la storia di una ragazza che cresciuta in un carcere minorile, o La Paranza dei Bambini, che mostra le vicende di un gruppo di ragazzi alle prese con il mondo della criminalità organizzata. Carpignano, invece, ha scelto di concentrarsi sulla vita degli immigrati a Torino, con il film Mediterranea, che segue le vicende di due giovani africani in fuga dalla povertà e dalla guerra. Entrambi i registi si concentrano su storie forti e drammatiche, mostrando il lato oscuro della società italiana da nord a sud.
La loro regia è caratterizzata (oltre che accomunata) da un inconfondibile senso del realismo, che porta lo spettatore a identificarsi con i personaggi e a immergersi nella loro realtà quotidiana. È grazie a registi come Giovannesi e Carpignano – oltre che al resto della next gen – se il cinema nel belpaese è diventato uno strumento importante per riflettere su quei problemi sociali spesso archiviati o banalizzati da ‘inchieste’ in stile Striscia la Notizia.
Per citarne altri, come non pensare a Dogman di Matteo Garrone (probabilmente il miglior regista italiano ad oggi). Una pellicola in grado di riflettere il sociale attraverso uno specchio di violenza e oppressione in chiave animalista. Il protagonista (Marcello Fonte) è un addetto alle pulizie di un centro di toelettatura per cani in una periferia degradata della città. Il suo sogno è di aprire un negozio di dolci per cani, ma il suo amico Simone (Edoardo Pesce) lo coinvolge in attività illegali che lo porteranno a dover affrontare le conseguenze delle sue scelte. Qui il regista mette in luce il tema dell’amicizia e della lealtà incondizionata, ma anche della sopraffazione e dell’abuso di potere, rappresentati dalla figura del criminale Simone. Garrone utilizza la fotografia per creare un’atmosfera claustrofobica e opprimente, che rispecchia la situazione del protagonista.
Anche in questo caso il film punta i riflettori sulle periferie italiane e sul problema della criminalità organizzata, mostrando come le persone comuni siano spesso costrette a subire repressioni senza alcuna possibilità di difesa. Con Dogman, Garrone dimostra ancora una volta di essere uno dei registi più importanti del panorama italiano contemporaneo, capace di portare sul grande schermo storie che ci costringono a fare i conti con noi stessi e con quella fastidiosa ipocrisia di fondo che ci trasciniamo dietro come un macigno.
Lo Chiamavano Jeeg Robot : un’inedita visione della periferia romana
Lo Chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti è un film che rappresenta un’inedita visione della periferia romana. Qui il regista sceglie di discostarsi da quei cliché tipici dei film ambientati nella Capitale e di creare un’opera che si concentra totalmente sui personaggi e sulla loro psicologia. Il protagonista, Enzo Ceccotti, è un criminale che vive in una periferia degradata e che acquisisce superpoteri dopo essere stato esposto a una sostanza radioattiva. La pellicola mostra la lotta interiore del character, diviso tra la sua vita criminale e la scoperta dei suoi nuovi poteri. La periferia romana viene rappresentata come un luogo caotico e turpe, ma anche come un ambiente in cui i personaggi possono trovare rari risvolti positivi all’interno di esistenze difficili da portare avanti scendendo dal letto la mattina.
Inoltre, si affrontano tematiche pesanti come l’immigrazione e la disoccupazione, evidenziando le complicanze che molte persone incontrano nel tentativo di integrarsi nella società. Il film ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, (tra cui il David di Donatello per il miglior attore protagonista a Claudio Santamaria), ma soprattutto ha dimostrato come sia possibile rappresentare la periferia romana da una prospettiva originale e innovativa, andando oltre i pregiudizi e le semplificazioni del genere.
Le periferie di Gabriele Mainetti e Roberto De Paolis
Il contributo di registi emergenti come Gabriele Mainetti e Roberto De Paolis è stato fondamentale per la rappresentazione delle periferie italiane sul grande schermo. Come già detto in precedenza, Mainetti e il suo Lo chiamavano Jeeg Robot hanno mostrato un profilo diverso della periferia romana, raccontando la storia di un ladro con poteri da super. Il film ha avuto un grande successo di pubblico e critica, diventando un piccolo cult del nostro cinema. Dal canto suo, Roberto De Paolis ha diretto recentemente Princess. Racconta la vita di una ragazza nigeriana che vive in Italia da clandestina, ai margini della società. Periferia non solo nei luoghi, ma anche e soprattutto nella mente di una povera creatura che si troverà ad affrontare le enormi difficoltà di cambiamento rispetto alla vita a cui era ormai tristemente abituata.
Mainetti e De Paolis sono accomunati una grande sensibilità nel rappresentare le emozioni umane calate in contesti deprimenti e mentalmente orrorifici, riuscendo a risultare coinvolgenti senza cadere nella banalità o nella retorica. Il loro contributo al cinema italiano contemporaneo è stato determinante, aprendo nuovi spazi di riflessione sulla società e sulle sue contraddizioni. Si rivolgono alle nuove generazioni, offrendogli una visione più autentica delle periferie italiane.
Città in trasformazione: il ruolo del cinema nella rappresentazione delle periferie
Il cinema ha sempre avuto un ruolo importante nella rappresentazione delle periferie italiane in trasformazione. Accattone, Il Grido, Viaggio in Italia ieri, Romanzo Criminale, Suburra, Lo Chiamavano Jeeg Robot oggi. Linguaggi tanto differenti nella forma, quanto simili nella sostanza di un racconto analogo dal punto di vista della perdizione, dell’alienazione e dello smarrimento. La periferia rimane ancora oggi un concetto paradossale, dove in molti casi si rischia di perdere la bussola e sprofondare in quell’abisso che inevitabilmente conduce alla resa dei conti con l’animo umano, e dunque a una maggiore consapevolezza di se stessi. Con il ritratto delle banlieue, questi film hanno mostrato le difficoltà dei quartieri poveri, la violenza e la criminalità che spesso le accompagnano.
Tuttavia, non si tratta esclusivamente di rappresentazioni negative o stereotipate. Il nuovo realismo e il cinema sociale italiano offrono una visione lucida e completa della società, rifacendosi maggiormente ai classici del passato negli intenti. I film di Claudio Giovannesi e Jonas Carpignano sono lì a testimoniarlo, esplorano le storie di giovani provenienti dalle periferie, cercando di tradurre le loro aspirazioni, i loro sogni e le loro difficoltà. Si tratta appunto di una prospettiva ricercata, che va oltre i luoghi comuni e le banalizzazioni del caso.
In definitiva, si può dire che il cinema italiano negli ultimi anni ha saputo tenere alta l’asticella con grande maestria nel dipingere le periferie del nostro paese, dando voce a storie e personaggi spesso trascurati o mal digeriti. Certo, c’è ancora molto da fare per rappresentare al meglio ogni aspetto che determina il volto e le sorti dello stivale, e ancora di più per togliere le ragnatele dalla periferia mentale, riportando la consapevolezza e lo spirito critico al centro del villaggio. ♦︎